Premessa necessaria prima di iniziare questo tour de force linguistico ed etimologico intorno al nome Andrea, ai concetti di andreia e di virtù: ho molti amici/che di nome Andrea, non ho niente contro gli/le Andrea che si sentiranno chiamati in causa, anzi grazie a loro (o per colpa loro) sono sorte le elucubrazioni esposte qui di seguito.

Nomi normativi

Capita infatti che qualche tempo fa un mio collega, maschio, sia stato apostrofato all’inizio di una mail in lingua tedesca “Gentile Signora Andrea”, cosa del tutto normale perché in Germania un generico Andrea deve essere una femmina. Nella mia cerchia di amici ho, poi, un Andrea fidanzato con un’Andrea (l’italiano ha l’apostrofo come agevole segno di distinzione): quest’ultima mi raccontava di come in realtà il suo vero nome sia Maria Andrea, con il Maria rigorosamente prima di Andrea, perché nel lontano 1995 non si poteva ancora registrare all’anagrafe una femmina con un nome, in Italia, prevalentemente maschile.

Spulciando alcune statistiche il nome Andrea risulterebbe addirittura il più diffuso al mondo, senonché nella maggior parte dei paesi europei, tra cui appunto Germania, Inghilterra, Svezia, Spagna, si tratta di un nome prettamente femminile, mentre in Italia è un baluardo (almeno fino al 2012, quando è stato oggetto di una sentenza della Corte di cassazione che ne ha stabilito l’applicabilità al femminile per motivi di “multiculturalità”) esclusivamente maschile.

Se si leggono poi i blog delle mamme pancine, quelle che pubblicano le foto di famiglia sui social solo dietro emoticon con gli occhi a cuore, si vedrà che queste ultime si oppongono strenuamente all’uso italico del nome Andrea al femminile e indignate si chiedono cosa farà la madre malcapitata quando tutte le altre penseranno che la figlia sia in realtà un maschio.

Ora, chi ha ragione? Andrea è maschio o femmina?

Etimologie di genere

L’etimologia potrebbe aiutare a sciogliere il dubbio, anche se non è scienza esatta. Il nome Andrea deriverebbe dal greco Andréas, che a sua volta discende da anér, cioè uomo inteso in senso di maschio, oppure dal termine andréia, derivato sempre da anér a tradurre l’idea astratta del maschio, cioè la mascolinità. A dirla così sembrerebbe che le mamme pancine abbiano ragione: semplificando, Andrea/andréia è sostanzialmente il modo che i greci avevano per indicare il maschile e tutto ciò che ci gira intorno, che è anche l’oggetto di questa rubrica.

Come si può intuire dunque, se si osserva più da vicino l’evoluzione di significati del termine è come se si seguisse (ovviamente in maniera parziale) la storia della mascolinità ellenica che, un po’ come quella contemporanea, non è mai qualcosa di definitivo.

Smoes nota infatti che andréia è parola post-omerica, che quindi non compare mai in Iliade e Odissea, i poemi epici per eccellenza: più volte però si trova in questi testi-miniera che hanno formato e continuano a formare il pensiero occidentale l’invito a “essere uomini”, cioè nella pratica dimostrarsi coraggiosi in battaglia, sprezzare la morte e rifiutare la ritirata. L’astratto per il concreto, l’andréia per il maschio, nasce successivamente proprio in riferimento a questo ideale, tant’è che il vocabolario inserisce tra i primi e unici significati del termine proprio “mascolinità” e “coraggio”, come a dire che si tratta di sinonimi.

Il genere delle parole

Leggendo meglio, però, si crea un primo cortocircuito linguistico: la parola con il significato maschile per eccellenza ha un genere (grammaticale) femminile e con il tempo verrà usata sempre meno a favore di un altro termine che ne ingloberà il senso (anche questo di genere grammaticale femminile), areté, ossia la virtù intesa come eccellenza in ogni campo, non solo in quello di battaglia.

I greci sembrerebbero rendersi conto a un certo punto del fatto che il coraggio marziale, il disprezzo della morte non bastano a definire il maschio: serve altro, tra cui prudenza, giustizia e temperanza, in sostanza le virtù cardinali che avranno tanto successo fino ai giorni nostri.

Le virtù, la virtù: anche questi, termini di genere femminile, oggi onnicomprensivi. Con un altro balzo etimologico diventa chiaro però che non è sempre stato così. Virtus infatti in latino classico altro non è che la traduzione di mascolinità, da vir, il maschio, e dal suffisso astrattizzante tut.

Virtus sta a vir quindi come andréia sta ad anér nella resa della mascolinità, che anche i romani pensavano inizialmente come equivalente al coraggio sul campo di battaglia e alla resistenza al dolore.

Sorvolando sul fatto che queste parole e le qualità connesse non siano (quasi) mai attribuite a figure femminili (la cui cifra costitutiva sarebbe la paura), la confusione di gener(i) aumenta se si vede che anche virtus è di genere (grammaticale) femminile e che la sua personificazione, la Virtus, era in realtà rappresentata a livello iconografico ufficiale come un’amazzone, cioè una guerriera armata.

Metamorfosi

Ovidio, poeta classico la cui sensibilità potrebbe essere più affine a quella di un ragazzo della generazione Z che a quella di un millennial, coglie appieno questa difficoltà e ironicamente afferma che ipsa quoque et cultu est et nomine femina virtus, cioè letteralmente la virtus è femmina nell’abbigliamento e nel nome, cosa che agli orecchi dei romani doveva suonare come dire “l’essere maschio è femmina di nome e di aspetto”.

La lingua cambia, evolve, e di pari passo con gli ideali e i contesti accoglie il nuovo e scarta ciò che sembra troppo stretto o limitante. Già Plutarco, autore che conosceva perfettamente sia greco che latino, si lamentava del fatto che i romani traducessero con virtus solo il greco andreia, affermando che questa da sola non fosse abbastanza per definire il vir, il maschio.

Così la virtus diventa col tempo, con l’evoluzione sociale e con l’avvicinamento al greco areté l’eccellenza generale, la virtù come somma di varie qualità, e si accosta al significato che mantiene tuttora, depurato oggi da ogni legame residuo con l’essere maschio.

Si potrebbe qui aprire una parentesi sul perché si parli di mascolinità e di maschio da mas, maris, perché questi termini abbiano sostituito il precedente virtus, e ancora perché si parli di virgo, cioè vergine: anche questa parola ha un legame col vir? Tutto si riconduce, alla fine, al maschio?

Non c’è risposta a quest’ultima domanda: Ernout e Meillet, autori di un dizionario etimologico del latino, osservano che nel calderone dell’indoeuropeo non esistono nomi per questa nozione, virgo, la vergine, è senza etimologia.

D’altronde il collegamento porterebbe troppo lontano, fino a parlare di Isidoro di Siviglia e delle sue fantasiose etimologie e delle virago, una sorta di creature mitologiche, cioè donne guerriere dai tratti androgini che hanno, tra l’altro, dato il nome a una navicella spaziale in Star wars e ispirato personaggi come Lara Croft nonché la Xena dell’omonima serie. Tutto questo in realtà, come in un circolo vizioso, non farebbe altro che ricondurci all’immagine ironicamente evocata da Ovidio, quella di una virtù/mascolinità che è femmina di nome e di fatto e che i romani non avevano problemi a rappresentare come tale.

Con buona pace delle mamme pancine, è evidente che c’è di più in Andrea e nella sua attribuzione femminile o maschile che la semplice moda o il gusto per l’esotico. L’intricato gioco di generi fisiologici e grammaticali muta e riemerge in epoca moderna dopo stratificazioni, prestiti ed evoluzioni.

Nell’Andrea greco c’è l’uomo nella sua mascolinità e nella presunta manifestazione atavica di quest’ultima, il coraggio, nell’Andrea moderno c’è quella desinenza femminile in -a e quella domanda latente: ma il coraggio è appannaggio unico della mascolinità? O, come già osservava Aristotele in riferimento a molte specie animali (ma da queste il passo è breve), è caratteristica anche della femminilità?

Quasi come se in Andrea si sintetizzasse l’irriducibile lotta delle categorie, tra coraggio e virtù, tra maschile e femminile, sempre più complesse di come le si vuole definire.

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