Funny Girl è il più brutto romanzo di Nick Hornby. Il 2023 sembra l’anno delle donne, tra Palma d’oro a Cannes, record di nuove serie tv al femminile e revisionismi storici vari in chiave protofemminista, ma dietro c’è la fregatura. L’inflazione di figli d’arte nello show business americano è una zavorra rischiosa. Dove si incontrano tre statement così inconciliabili?

Negli ultimissimi titoli-clou delle piattaforme, Sky e Netflix, tanto per non fare nomi. Hbo ci ha reso un grande servizio etichettando a priori la sua The Idol come “serie di culto”: anche al buio è una ragione eccellente per diffidare.

La consacrazione ufficiale della neo star Lily Rose Depp (figlia d’arte, chi più di lei?) passa su Sky e NOW tutti i lunedì, in contemporanea con gli Usa. Il festival di Cannes ha anticipato i primi due episodi. L’esplicito intento di provocare è irritante, ma il pilot, la prima puntata, potrebbe persino promettere bene. Potrebbe annunciare uno sguardo disinibito sul cinico sfruttamento del corpo femminile che è il pane quotidiano dello show business.

Conformismo maschile

Solo che non è così, o almeno non è più così. Sui burrascosi retroscena del set ha indagato Rolling Stone, portando a galla la netta inversione di rotta segnata dal passaggio di mano della regia: fuori Amy Seimetz, donna, dentro Sam Levinson, uomo, che dopo il suo Euphoria è diventato un mostro sacro dello streaming.

Lo script è cambiato a ripetizione e la pop star Abel “The Weeknd” Tesfay, protagonista maschile, è misteriosamente diventata in corsa coautore della serie. La produzione ci sguazza, ha definito The Idol un parto delle menti “contorte e malate” di Tesfay e Levinson, ma gli sviluppi del plot riservano – pare – la vecchia minestra della sottomissione sessuale.

Secondo Jocelyn-Depp, nella finzione superstar da hit parade avvezza alle crisi psicotiche, sono giochini che giovano alla sua musica. Cinquanta sfumature di grigio, ancora e ancora. Da denuncia dell’abuso sul corpo della donna a elegia dell’abuso. Non credo al torture porn o alle “fantasie di stupro” azzardati (al buio) da alcune testate Usa, ma già le premesse si prestano a una doppia lettura.

Il flash iniziale sul team di avvoltoi che sfrutta il successo di Jocelyn (personaggio modellato su Britney Spears  è abbastanza feroce. Lei è vile creta in mano a un fotografo («sguardo da cerbiatta!», «maliziosa, ora!», «ora sesso puro!»), mentre i suoi cortigiani strumentalizzano a fini promozionali il crollo nervoso che l’ha devastata. «Stiamo idealizzando la malattia mentale?». «Assolutamente sì!».

Jocelyn sfodera le tettine e l’intimacy coordinator (esistono davvero?) pianta una grana perché la clausola sulla nudità del contratto non lo prevede.

«Smettetela di voler castrare l’America», taglia corto la direttrice creativa.

Le tettine di Lily Rose saranno elemento narrativo ma sono un atout sostanziale per l’algoritmo. Tutto il corredo di situazioni e immagini “super hot” è pura merce da audience (bacchettoni esclusi, s’intende). Come il casino che scoppia quando un’immagine della star con il volto irrorato di sperma finisce in rete. «Si può spacciarla come revenge porn?», si chiedono gli avvoltoi. «Riusciamo a venderla come un’eroina femminista?».

È marketing verosimile, ma si presume – certo gli autori presumono – che chi guarda dal divano di casa sia fortemente solleticato. La trasgressione ha anche pretese cinefile: si citano Gaspar Noé e il Paul Verhoeven di Basic Instinct. È una serie di lusso imperniata su una donna, ma dominata dal più polveroso conformismo maschile.

Scommettere sul Dna

La palma d’oro di Cannes 2023 è la terza da sempre vinta da una regista donna, Justine Triet, per Anatomia di una caduta. Julia Ducournau, che era in giuria e che solo due anni fa ha portato alla palma il suo Titane, gongolava. Nessuno dei due film era il migliore in concorso: è un dato, non un’opinione. Serve alle donne registe una maglia rosa non meritata? No, serve a un festival a caccia di consensi in un paese come la Francia, dove i movimenti femministi sono solidi e mettono paura.

È lo stesso festival che si ingolfa di riletture protofemministe di eroine regali, come la Caterina Parr, ultima moglie di Enrico VIII, inutilmente esplorata da un bravo regista qui sottotono, Karim Ainouz, nel suo Firebrand. O come la Jeanne du Barry dello sclerotico film di apertura, un monumento al narcisismo dell’attrice-regista Maiwenn.

C’è di nuovo che produrre e promuovere storie di donne è politicamente corretto e “fa progressista”. È un salvacondotto. A proposito di storie di donne e di figli d’arte, Netflix ha fatto breccia con Maid, la miniserie che consacra la bella figlia di Andie MacDowell, Margaret Qualley, e che ha almeno il vantaggio di ricalcare le vere esperienze di vita di Stephanie Land, narrate nel suo Donna delle pulizie – Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre.

Nel 2019 il libro ha debuttato al terzo posto nella lista dei bestseller del New York Times. Le dinastie a volte funzionano, a volte no. Il vero plusvalore di Maid è la sorprendente presenza di mamma Andie in versione hippie, svanita e bipolare. Ma il proverbiale ossequio dinastico hollywoodiano spesso incassa cantonate sonore. Sam Levinson, quello di The Idol, due anni fa ha sfornato un kammerspiel in bianco e nero, Malcolm & Marie, per imporre nello star system John David Washington, figlio di Denzel. Pessima idea, piazzare uno stoccafisso a fianco della magica Zendaya, che rivedremo al suo meglio nel secondo Dune. È stato un flop, e non è andata meglio a Sean Penn con Una vita in fuga (Flag day), trampolino difettoso, a dir poco, per i due pargoli del suddetto, Dylan e Hopper Jack. Scommettere sul dna spesso non porta bene.

Femminista senza fanfare

Gli inglesi sotto questo profilo sono più seri. Funny Woman - Una reginetta in Tv è un’altra novità seriale al femminile targata Sky, e la primissima ragione per guardarla è che Funny Girl, il romanzo da cui è tratta, è il più brutto mai scritto da Nick Hornby. Da devota lettrice dell’autore di Alta fedeltà (un cult vero) devo ammettere che la puntualità con cui piazza i diritti cinematografici dei suoi libri un po’ infastidisce.

In qualche caso i risultati sono superlativi, vedi appunto Alta Fedeltà nella trasposizione di Stephen Frears e Juliet, Naked – Tutta un’altra musica, firmato da Jesse Peretz. Il guaio è che il nostro per assuefazione ormai scrive direttamente sceneggiature, irricevibili come romanzi. La miniserie diretta da Oliver Parker funziona paradossalmente per questo. E funziona perché, contro ogni regola corrente e in sintonia coi mélo classici anni Cinquanta, sceglie una trentasettenne come Gemma Arterton per incarnare una ventenne rampante.

Lana Turner, per dire, è stata una jeune fille en fleur fino ai cinquanta suonati. Arterton ha un lontano passato da Bond girl (Quantum of Solace è del 2008) ma a valorizzarla davvero sono stati Stephen Frears con Tamara Drewe, tratto da un graphic novel, e Anne Fontaine con Gemma Bovery, che era una deliziosa variazione sulla Bovary di Flaubert. Il sub-messaggio che scalda il cuore è trasgressivo davvero, con buona pace di The Idol: se il cinema è finzione, perché l’anagrafe dovrebbe dettar legge?

E poi c’è l’epoca appetitosa, la swinging London dei ruggenti Sessanta con le sue cotonature improbabili e le sit-com televisive registrate col pubblico che ride davvero. È il genere immortalato da Lucille Ball, che infatti è l’idolo di Gemma Arterton-Barbara Parker. Il libro era tedioso, la serie è godibile, femminista senza fanfare: merito di un’attrice funny non solo di nome e di comprimari autoironici come Rupert Everett.

Pochi ex bellissimi calpesterebbero con tanta allegria il proprio mito. La parata di hit vintage da sballo è nell’ordine delle cose: il cuore di Nick Hornby batte a tempo di musica. Nei ritagli di tempo, ha pubblicato le proprie playlist romanzate. Tempo al tempo: riuscirà a vendere i diritti cinematografici perfino di quelle.

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