Da anni vado ripetendo che non si diventa adulti al diciottesimo compleanno, che non c’è un’età anagrafica che sancisce universalmente l’ingresso nella maturità, che l’età adulta è uno spettro a cui partecipiamo tutti in maniera diversa, come piccoli fiocchi di neve più o meno irrisolti, più o meno malati di mente, più o meno dipendenti dalle nostre madri. Adulti si diventa quando si impara a dividere i bianchi dai colorati dopo aver rovinato almeno un paio di maglioni, dico io, e quando ci si paga le bollette da soli. Quest’ultimo è il punto su cui insisto più spesso e con eccessivo trasporto, fregiandomi di aver aperto la partita Iva a 21 anni mentre tenevo il riscaldamento di casa a 18 gradi e sentendomi per questo Giovanna D’Arco. Che ne sapete voialtri dell’indipendenza, che ne sapete della dura vita di un’aspirante scrittrice scollata dalla realtà e determinata a non uscire dalla prima circonvallazione di Milano.

Scollamento dalla realtà

Età adulta significa anche sviluppare il senso del ridicolo, e infatti eccomi qui, al decimo anno di partita Iva, sempre scollata dalla realtà ma almeno consapevole del suddetto scollamento. Qualora questa consapevolezza vacillasse, ci pensa il mio gestore telefonico a riportarmi coi piedi per terra. In particolare ci pensa Manuela, l’operatrice che questa settimana mi ha chiamato per vendermi la connessione internet di casa e nel giro di pochi secondi ha riconfigurato il mio sistema di valori e tutte le mie certezze, ricordandomi in breve che sono una buffona.

La conversazione è andata più o meno così: «Buongiorno signora Pilotti, le interessa la nostra adsl?».

«No, grazie, sono contenta della linea che ho già».

«È intestata a lei?».

«No, al mio compagno»,

«È il signor Pilotti a cui è intestata anche la sua utenza telefonica?».

«No, quello è mio padre».

Realizzo che a 31 anni suonati mio padre mi paga ancora il cellulare, e questa epifania demolisce la mia teoria sull’età adulta e le bollette. C’è poi il precedente imbarazzante dell’adsl intestata al fidanzato e mi rendo conto che non sto uscendo benissimo da questa telefonata e decido di dichiararlo a Manuela, come ammissione di colpe prima che lo scambio tra di noi si dilunghi inutilmente.

«Non ho nulla intestato a me». Penso che potrei specificare che però offro abbonamenti a svariate piattaforme di streaming a tutti i membri della mia famiglia, ma temo di sembrare ancora più ridicola e soprattutto, in un lampo di lucidità, metto a fuoco che a Manuela non frega nulla dei dettagli della mia patetica esistenza.

«Fai bene, fai bene» mi dice abbandonando il “signora Pilotti” e passando al grado di confidenza che riserva probabilmente al suo cane, dopo aver giustamente ricalibrato il rispetto nei miei confronti. «Falli pagare, gli uomini servono a questo» conclude, uccidendo allo stesso tempo la mia convinzione di essere un’adulta responsabile e quella di essere una brava femminista. Mi saluta e mette giù, forse prima di scoppiare a ridere.

Orgoglio ferito

Mentre immagino Manuela che nell’open space del suo ufficio mi deride con i colleghi, mi ritrovo a rimettere in discussione tutte le mie scelte e la mia stessa identità, fondata su una menzogna.

Penso a tutte le amiche che stanno partorendo a frotte, alle spese da Kevin McCallister che faccio ogni volta che resto a casa da sola, alla mia drammatica incapacità di guidare qualsiasi mezzo, al fatto che pago le tasse, va bene, ma ancora non ho idea di cosa sia l’Irpef. Penso che quest’anno, per la prima volta da quando lavoro, sono riuscita davvero a mettere da parte un po’ di soldi e che come prima cosa ho deciso di comprare una borsa e degli stivali da ricca. Penso a quell’angioma epatico che dovrei controllare ogni anno e di cui mi scordo sempre (l’ultima volta me ne sono scordata per sette anni consecutivi), al mio commercialista che si fa pagare in salumi e formaggi, al fatto che ad anni 31 o sto faticosamente imparando a farmi la piega con la manualità di un macaco. Al pacchetto di biscotti sbriciolato che giace da mesi sul fondo della borsa della palestra, alle tovaglie macchiate, alle mutande bucate, ai cartoni animati che mi fanno piangere. Sono arrivata a trent’anni pensando che si dicesse “butta caso” e che “putacaso” fosse un simpatico vezzo del mio fidanzato toscano, che mio padre mi paghi ancora il telefono non è nemmeno la notizia più grave.

L’età adulta è uno spettro, mi ripeto mentre combatto l’istinto di richiamare Manuela e farmi intestare una linea adsl solo per difendere la mia immagine ai suoi occhi. Sono una persona vera Manuela, dammi questa internet.

Nella successiva ora rammendo il mio orgoglio ferito e cerco di concentrarmi su tutti i passi avanti che invece ho fatto in questa critica decade: finalmente gli adolescenti mi danno del lei, non butto più i capelli nel water, non mi ricordo l’ultima volta che ho bevuto abbastanza da vomitare e ho imparato a riconoscere il livello di ebbrezza sufficiente per divertirmi a feste mosce, ma senza sfondarmi il fegato (l’angioma epatico ringrazia).

Ho sempre un’aspirina in borsa e non vado mai a letto truccata, una pratica che insieme all’applicazione quotidiana della crema solare è alla base di tutti i mantra di estetiste e beauty influencer a cui mi affido con trasporto, incapace di rassegnarmi all’idea che l’unico modo per avere la pelle delle ragazze coreane è nascere in Corea.

Ma comunque spalmo e applico e mi prendo cura di me nei limiti delle ore a disposizione in una giornata che sono disposta a devolvere ad attività penose: sette secondi per buttare i biscotti sudati dalla borsa non li trovo, ma mezz’ora di massaggi facciali ogni sera perché no.

Mi rifiuto invece di passare il filo interdentale, a parte quella volta all’anno in cui mi sento ispirata e finisco per sputare sangue per due giorni. L’età adulta è uno spettro, mi dico salutando il filo interdentale per altri 12 mesi.

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