Uno dei miti pitagorici più noti immaginava che nel loro movimento cosmico i pianeti producessero un suono, diverso a seconda delle loro velocità e delle loro distanze. Tutti insieme questi suoni costituivano la cosiddetta “musica delle sfere”, percepibile soltanto in due momenti: quando il moto cosmico iniziò, e quando cesserà. Ma perché mai nel mezzo noi non potremmo sentire questa musica, pur udendola? Volendo dare un senso a un mito, che è insensato per sua stessa natura, la risposta sarebbe semplice: perché i nostri sensi si assuefanno agli stimoli, e dopo un certo tempo smettono di percepirne la presenza, salvo poi accorgersi paradossalmente della loro assenza nel momento in cui essi cessano.

Il fenomeno è generale, come hanno mostrato Richard Thompson e Alden Spencer in un classico lavoro su L’assuefazione: un fenomeno che può fungere da modello per lo studio del comportamento dei substrati neuronali (1966). In particolare, il fenomeno si ritrova in molte delle nostre attività e delle nostre credenze: ad esempio, nel modo in cui contiamo gli anni a partire da una data convenzionale. L’ha confermato qualche giorno fa il filosofo Paolo D’Angelo, scrivendo nella sua recensione del libro dello scrittore Massimiliano Parente e del neuroscienziato Giorgio Vallortigara Lettere dalla fine del mondo: «Ditemi voi quale persona normale dicendo “Nel 2022 finalmente torneremo a viaggiare!”, aggiunge anche solo mentalmente “nel 2022 dopo Cristo”. Direi che a Cristo non ci pensa proprio».

Questa critica era rivolta a un’affermazione di Parente, che D’Angelo riassumeva così nell’incipit del suo pezzo: «Lo Scrittore (con la maiuscola) la spara subito grossa. Non capisce perché ci ostiniamo a contare gli anni dalla nascita di Cristo, anziché in un altro modo. Contandoli da Cristo paghiamo un tributo a un’impostura, ci accodiamo a una ridicola stupidità, ci sottomettiamo alla falsità della religione». E poco dopo aggiungeva, e questo è il motivo per cui ne sto parlando io qui: «L’insofferenza dello scrittore ci appare lievemente esagerata. Persino Odifreddi la troverebbe eccessiva. Di certo è insensata».

La penso come Parente

Invece, per quanto possa interessare, io la penso esattamente come Parente. O forse, lui la pensa come me, visto che già vent’anni fa datavo il mio primo libro divulgativo Il Vangelo secondo la Scienza (con la maiuscola): «Torino, 5757 dell’era ebraica, 5099 dell’era induista, 2540 dell’era buddhista, 1997 dell’era cristiana, 1417 dell’era islamica, 153 dell’era baha’i». Ricordo ancora lo sguardo perplesso dell’editore, di una casa editrice pur notoriamente laica, anche lui vittima della legge di Thompson e Spencer.

In realtà, quella non era una provocazione, in un libro che ne aveva sicuramente altre: ad esempio, il vezzo di chiamare Introito ed Eucarestia la prefazione e i ringraziamenti, in un donchisciottesco tentativo di riappropriazione di due vocaboli che ormai, per la citata legge dell’assuefazione, sono passati a indicare soltanto due parti di un rito cristiano. D’altronde, fu la stessa legge a far fraintendere il titolo del mio libro come se fosse Un esame scientifico dei Vangeli cristiani, mentre io l’avevo inteso come La Buona Novella della Scienza (sempre con la maiuscola).

Invece, come dicevo, la mia datazione non era affatto una provocazione. Piuttosto, intendeva «dare agli dèi ciò che è degli dèi», indicando fin da subito che il discorso si sarebbe esteso alle religioni in generale, senza rimanere confinato a una religione particolare. In fondo, chiunque sia andato in Israele, in India, in Thailandia o in Arabia Saudita si sarà accorto che le datazioni sui giornali e nei media non sono affatto riportate secondo l’era cristiana, ma piuttosto secondo le ere ebraica, induista, buddista e islamica.

Questo dimostra che quando D’Angelo parla di “persone normali” intende soltanto sé stesso, e quelli come lui: cioè, coloro che vivono nei paesi cristiani, senza mai mettere il naso fuori casa. Il che mi ricorda la barzelletta in cui a tavola si ritrovano persone di lingue diverse, e l’inglese cerca di convincerle che la propria lingua è l’unica corretta. Per farlo domanda a ciascun commensale come si dice “coltello” nella loro lingua. Dopo che il francese ha detto couteau, il tedesco Messer e lo spagnolo cuchillo, l’inglese nota trionfante: We call it knife, and after all that’s what it is, “Noi lo chiamiamo coltello, e d’altronde è quello che è” (bisogna dirlo in inglese, perché solo gli inglesi hanno la prosopopea che rende credibile la barzelletta).

In ogni caso, è certamente vero che quando diciamo 2022 non pensiamo in genere “dopo Cristo”, ma se diciamo che Roma è stata fondata nel 753 non solo possiamo pensare, ma dobbiamo dire “avanti Cristo”. E qui casca l’asino, perché nei romanzi evangelici sta scritto che Cristo è nato sotto Erode Ascalonita (junior, avrebbe detto l’inglese della barzelletta), il quale è morto nel 4 avanti Cristo. Ma questo significa che Cristo è nato almeno quattro anni prima di Cristo, e presenta subito il dilemma logico su come qualcuno possa nascere prima della propria nascita: dubbio che, immaginiamo, i fedeli risolvono facilmente identificandolo con il primo miracolo dei Vangeli.

Stabilito che il riferimento della nostra era non può essere Cristo, per una semplice questione di logica, rimane il problema di come evitare di parlare invano di lui, in accordo con i presunti desideri espressi da suo padre a Mosé. Nel mio libro Perché non possiamo essere Cristiani (2007) ho usato le locuzioni “prima dell’Era Volgare” o “dell’Era Volgare”, abbreviate rispettivamente in “p.E.V.” e “E.V.”, e ottenute traslitterando l’Era Vulgaris introdotta nel 1716 dal vescovo inglese John Prideaux, che la intendeva nel senso di Era Popolare o Comune.

Molti la presero come una volgarità mia, evidentemente ignari del fatto che nel 1908 l’Enciclopedia Cattolica così scriveva, con toni d’angelici: «La datazione più importante è quella adottata da tutti i popoli civili e nota come Era Cristiana, Volgare o Comune». In seguito io ho preferito comportarmi semplicemente da matematico, lasciando la data in cifre quando sono positive, e aggiungendo un segno meno quando sono negative: secondo questa notazione, ad esempio, Roma fu fondata nel -753. Molti obietteranno che il fantomatico anno 0 a cui si fa implicitamente riferimento non è mai esistito, ma altrettanti al mondo pensano la stessa cosa di Cristo, e siamo pari.

Calendario universale

Oltre che con Parente, nella sua recensione D’Angelo se la prende anche con Vallortigara, scrivendo: «Lo Scienziato (sempre con la maiuscola) la spara ancora più grossa, perché è entusiasta dell’idea di contare gli anni dalla pubblicazione della Origine della specie di Charles Darwin, dato che dopo quel libro “niente è più lo stesso”». Non stupisce che un filosofo si stupisca della proposta: soprattutto uno che ammette di non ricordarsi di quel libro neppure la data di pubblicazione, pur aggiungendo spiritosamente che comunque è un certo numero di anni “dopo Cristo, si intende”. Forse non gli viene in mente che, con il suo stesso metro, potremmo aggiungere altrettanto spiritosamente a tutte le date che cita lui “più 753 ab urbe condita, si intende”.

In realtà, il problema di trovare un sistema di riferimento di datazione universale è perfettamente sensato, soprattutto in un mondo globalizzato come il nostro. E non si può certo pensare seriamente di risolverlo, come sembra implicare il filosofo, in maniera analoga a quella proposta nel 1453, anno della caduta di Costantinopoli, dal cardinal Cusano nel suo progetto per la pace della fede: cioè, pretendendo che tutti si convertano a ciò che piace a noi. Anche perché, con uguali diritti, gli altri potrebbero evangelicamente pretendere la stessa cosa da noi.

Per quanto riguarda il calendario, sarebbe provinciale e ottuso basare una datazione universale su mitologie fantastiche, come la nascita di Buddha o di Cristo, o su avvenimenti anacronistici, quali la fondazione di Roma, l’ascensione al trono di Chashtana o l’egira di Maometto. Delle ere citate in precedenza, l’unica che ha un punto di riferimento oggettivo e universale è quella ebraica, che sensatamente conta gli anni dal momento della creazione del mondo, anche se insensatamente basa il computo sui dati della Bibbia, ottenendo un ridicolo risultato di 5781 anni.

Volendo fare i calcoli corretti, bisognerebbe anzitutto distinguere tra l’anno d’origine dell’universo e quello del nostro pianeta, che nella mitologia biblica coincidono, ma nella visione scientifica no: il primo servirebbe per un calendario universale, mentre il secondo basterebbe per uno terrestre. In entrambi i casi ci sarebbe però un duplice problema, legato al valore assoluto del risultato e al suo margine d’errore: secondo il calendario universale, infatti, con il 68 per cento di probabilità saremmo nell’anno 13 miliardi e 800 milioni, più o meno 21 milioni di anni, e secondo il calendario terrestre nell’anno 4 miliardi e 540 milioni.

Poiché la loro affidabilità è troppo piccola, e la loro incertezza troppo grande, queste uniche datazioni veramente oggettive risultano inservibili, almeno per ora. Siamo dunque costretti a rivolgerci a più maneggevoli date soggettive, sull’importanza delle quali l’intera umanità possa però unanimemente convenire. Il che ovviamente esclude qualunque riferimento politico, religioso, filosofico, letterario o artistico, visto che la maggior parte di noi è culturalmente miope, e non conosce altro che la propria tradizione.

Non rimane dunque che un riferimento scientifico, ma a differenza di Vallortigara io preferirei l’anno della pubblicazione dei Principia Mathematica di Newton: un’opera che non solo ha spalancato le porte della scienza moderna, ma ha enunciato la prima legge veramente universale (quella di gravitazione) mai scoperta dall’uomo. Viva dunque l’anno 334 dell’unica era scientifica, e abbasso gli anni 5781, 2564, 2077, 2021 e 1442 delle varie ere mitologiche!

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