Metti una sera nella Piramida al centro di Tirana, con registi, scrittori, produttori, giornalisti, artisti albanesi, nonché macedoni, greci, sloveni, montenegrini, bosniaci, rumeni, italiani, croati. Un milieu fecondo di idee, progetti e coproduzioni a onta delle risorse pubbliche schipetare ancora scarse per il cinema e la cultura in genere.

È successo nelle giornate del Balkan Film Market, rinato nel nuovo contenitore culturale dopo la pandemia, e accade di solito nei pub e nei jazz club del Blloku, il quartiere della vita notturna nella capitale. Come nella Madrid libera dal franchismo, anche qui la movida riserva una traccia simbolica: è lo sblocco del Blocco che era un’oasi di benessere nel contesto poverissimo dell’interminabile satrapia prima stalinista, poi maoista e infine isolazionista di Enver Hoxha (dal 1944 alla sua morte nell’85).

Nelle lussuose ville del Blloku oggi in semi-abbandono s’aggirano i fantasmi dei potenti quali Mehmet Shehu, il generale plurilingue che aveva studiato alla Nunziatella di Napoli e poi a Mosca, primo ministro albanese dal 1954 al 1981, quando si toglie la vita in circostanze rimaste misteriose. Poco oltre, nell’area-cantiere intorno a piazza Scanderberg, Tirana può evocare in sedicesimo la Parigi anni Ottanta dei Grands Projets di Mitterrand o la tumultuosa urbanistica di Berlino post-Muro nei Novanta.

Certo, i figli dei ricchi vanno a studiare negli USA o in Germania, ma decine di migliaia di persone ogni anno si trasferiscono a Tirana, dove attualmente risiede oltre un milione di albanesi sui meno di tre rimasti dopo le ondate di espatrio, dall’esodo biblico nei tempi della Vlora (1991) al crollo delle cosiddette «piramidi finanziarie» (cercando un altro Egitto). La trasformazione produce immaginario e il cinema albanese prova a giovarsene, fra ricorrenti analisi del regime che fu e ardite proiezioni nel futuro.

Le metamorfosi della città

Tirana capitale ha poco più di un secolo (1920) e di fatto cambia volto – da paesone rurale a centro burocratico – per volontà «imperiale» del fascismo, assumendo l’aspetto di «un boulevard senza città» secondo una tagliente definizione di Indro Montanelli. Erano italiani gli architetti di due costruzioni datate 1939: lo stadio Qemal Stafa, demolito nel 2016 per far posto alla nuova Arena, e il Teatri Kombetar, il Teatro Nazionale concepito in stile razionalista. Quest’ultimo è stato buttato giù in un’alba livida, il 17 maggio 2020 nel pieno della prima ondata di Covid, nonostante fosse occupato da un presidio di teatranti e intellettuali (al suo posto sta sorgendo una struttura polifunzionale per lo spettacolo).

L’epilogo ha infiammato gli animi. Il premier socialista ed ex primo cittadino Edi Rama, il quale proviene pur sempre dal mondo dell’arte (insegnava in Accademia), lo riteneva un rudere o poco più. Laddove non pochi fra i suoi stessi amici avevano eletto il teatro a emblema identitario di un ‘900 sapiente e «sostenibile» grazie al populit usato per costruirlo, un impasto poroso di alghe, fibre di legno e cemento.

«Sono un politico – taglia corto sul punto il quarantenne Erion Veliaj, delfino di Rama, sindaco socialista di Tirana dal 2015 e al suo terzo mandato – faccio politica e non rispondo alla nostalgia, bensì ai doveri di sicurezza pubblica e di innovazione urbana. Il volto della città è cambiato in meglio, attiriamo turisti e capitali».

La vicenda del Kombetar resta una ferita nel corpo stesso delle élites locali (tra le voci critiche la giornalista televisiva Elsa Demo e il famoso artista Adrian Paci), solo in parte ricucita grazie alla recente riqualificazione della Piramide lungo il viale dei Martiri della Nazione, il boulevard di Montanelli e degli edifici governativi. La Piramide, eretta a mo’ di faraonico mausoleo in memoria di Hoxha fuori tempo massimo nel 1988, è stata tra l’altro un centro NATO durante la guerra del Kosovo e una discoteca. Un progetto dell’olandese Winy Maals, finanziato con 14 milioni di euro, ne ha rivisitato i dodicimila metri quadri corredandoli con una serie di volumi colorati e dodici scalinate che portano in cima. Fra i tanti grattacieli privati in costruzione, è uno spazio pubblico molto frequentato e dal sapore europeo. Nondimeno, il processo di adesione dell’Albania all’Ue è più lento del previsto (la domanda risale al 2009) ed è difficile che giovi alla causa il discusso accordo Meloni-Rama per la dislocazione dei migranti salvati dalle navi italiane in acque internazionali, che pure ha ottenuto un confuso via libera da Bruxelles.

I protagonisti

Tra i cineasti e gli artisti visivi, è assai coeso il gruppetto formato da Ilir Butka, Genc Permeti e Andamion Murataj, versatili nello scambiarsi i ruoli di produzione, sceneggiatura, regia. Il venticinquenne Ilir si ritrovò con una mezza di dozzina di compagni dell’Accademia delle arti di Tirana fra i settemila esuli della nave Legend che il 6 marzo 1991 coprì a stento il tratto di mare da Durazzo a Brindisi. A lungo Butka ha presieduto il Centro nazionale del cinema creato nel ‘97 guardando al modello francese, tutt’ora perseguito con l’ausilio di Simonetta Dellomonaco, ex presidente della Apulia Film Commission e coordinatrice di un partenariato tra Parigi e Tirana.

Permeti ha appena diretto un film dalla trama post-apocalittica che evoca Theo Angelopoulos nello stile del piano-sequenza e gode del sostegno del produttore italiano Amedeo Pagani. Murataj fu premiato al Festival di Berlino nel 2011 per la sceneggiatura di The Forgiveness of Blood di Joshua Marston ispirato al Kanun, il primordiale codice consuetudinario delle montagne albanesi, e adesso sta ultimando la regia di Man of the House, storia di una donna che sceglie di vivere da uomo fra le contraddizioni imposte dalla tradizione. Questi e altri film si avvalgono dell’Agenzia delle industrie creative diretta dal giovane Jonid Jorgji, a sua volta già autore della commedia Two Lions to Venice sulle disavventure di due cineasti in trasferta alla Mostra di Venezia.

A bordo della Legend c’era anche il regista Roland Sejko, che dal 1991 vive a Roma e dirige l’Archivio storico dell’Istituto Luce-Cinecittà. Sejko due anni fa ha presentato alla Mostra di Venezia La macchina delle immagini di Alfredo C., un docudrama sul cineoperatore Alfredo Cecchetti giunto al seguito degli occupanti italiani oltre Adriatico, dove viene trattenuto a guerra finita: due volte vittima della Storia, sia del fascismo sia del comunismo. Ora lavora a un nuovo documentario su Hoxha e la sua corte, un tema parimenti scandagliato da Robert Budina (A Shelter Among the Clouds, 2018) in vista di una possibile serie televisiva.

La riflessione sul passato

No, non è solo il richiamo della memoria. L’ossessione-Enver si spiega alla luce dei foschi risvolti scespiriani del regime: la gelosia degli aguzzini, gli intrighi di Palazzo, la brama perversa di dominio. Mentre Edmond Budina, fratello di Robert e padre della produttrice Adele Budina operativa tra Roma e Tirana, prepara un film di finzione sugli italiani costretti a rimanere in Albania dopo la guerra. Non manca una nuova leva di interpreti, come Fatlume Bunjaku o la bravissima Julinda Emiri che è nel cast del toccante dramma adolescenziale The violinist di Saimir Bajo, regista albanese in cattedra alla Prague Film School.

La tetra cantilena marxista-leninista di Radio Tirana è il passato remoto. Il Paese sbandiera il boom del turismo internazionale a danno della Puglia dirimpettaia e mezzo mondo va matto per Dua Lipa, la popstar londinese di origini kosovare-albanesi che ha cominciato cantando la sua Future nostalgia. Nel gigantesco Bunk’Art alla periferia di Tirana, ex rifugio-labirinto di Hoxha (ve n’è un altro, più piccolo, in pieno centro), il giornalista italiano Carlo Bollino che qui guida il gruppo editoriale Report Tv ha raccolto e allestito i tragici reperti del colonialismo mussoliniano e della lunga notte rossa.

La sala sotterranea del Bunk’Art ha ospitato di recente l’incontro tra due grandi vecchi, entrambi classe 1936: Ismail Kadare, il più importante scrittore albanese da molti anni in predicato di Nobel, e Luciano Tovoli, direttore della fotografia di fama mondiale e regista di un solo film, Il generale dell’armata morta, tratto nel 1983 dall’omonimo romanzo d’esordio di Kadare (1963). C’è Marcello Mastroianni nei panni di un alto ufficiale incaricato di riportare a casa le spoglie dei soldati italiani caduti in Albania, con un finale choc. Mai proiettato prima nel Paese delle Aquile, Il generale dell’armata morta suggella un rapporto tra le due sponde più complesso di quanto non sospettiamo.

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