Per chi come me era sul crinale dell’età adulta al passaggio del millennio, il libro No Logo di Naomi Klein, uscito in Italia nel 2000 è stato un punto di riferimento fondamentale. Generazione di giovani pentiti di aver voluto un piumino Moncler da piccoli, eravamo convinti che con il nuovo secolo le cose sarebbero cambiate per sempre, ci saremmo non solo liberati dall’egemonia dei marchi, ma smascherando le storture dei processi di produzione e attaccando lo strapotere delle multinazionali avremmo tirato una stoccata definitiva al capitalismo.

Erano gli anni in cui tutti i prodotti culturali di maggior successo (e forse avremmo dovuto capire che il paradosso era già incluso) tentavano una critica al predominio del mercato su ogni aspetto della nostra vita.

Basti pensare all’angoscia che ci aveva trasmesso un film come The Truman Show, nel quale il povero protagonista scopre che la sua vita è stata suo malgrado una lunga finzione televisiva piena di pubblicità, a beneficio di un vastissimo pubblico.

Brand ovunque

An advertisement for the Paramount Movie "The Truman Show" starring Jim Carrey. (AP Photo/Paramount Pictures)

Sono passati vent’anni e non solo siamo stati smentiti sulle sorti del capitalismo, ma le nostre speranze di una vita senza loghi sono state letteralmente schiacciate da una realtà di segno opposto: i brand sono più presenti che mai in ogni aspetto della nostra esistenza.

Basti pensare alla prospettiva ribaltata rispetto a quella che ritenevamo inquietante in Truman Show: con l’avvento dei social, trasformare la propria vita in un set pubblicitario permanente dentro il quale coinvolgere tutta la famiglia, inclusi nonni e figli piccoli, è considerata una prospettiva professionale a tutti gli effetti, addirittura ambìta, e gli influencer sono a pieno titolo portatori legittimi di certi messaggi politici, anche se il tutto avviene in una cornice in cui non si prescinde mai da una finalità di promozione di prodotti.

La settimana scorsa l’agenda mediatica è stata dominata da un dibattito che dal gossip (la canzone vendicativa che Shakira ha dedicato all’ex marito fedifrago) ha sconfinato nella discussione sui retaggi del patriarcato nella cultura dominante di fatto monopolizzata da confronti e botta e risposta tra i marchi citati nella canzone: Rolex vs Casio, Ferrari vs Twingo.

Non solo abbiamo attribuito agli oggetti un valore di rappresentanza rispetto al nostro stile di vita  e alla nostra identità, ma siamo andati molto oltre: abbiamo dato ai marchi che li producono anche voce in capitolo rispetto alle ideologie, alle battaglie culturali e civili.

I persuasori occulti si sono trasformati in persuasori più che manifesti, ma sempre di persuasori si tratta e forse questi ultimi sono ancora più pericolosi.

Le alleanze

Sono già almeno due decenni che certe marche di lusso sono presenti nelle canzoni e sono entrate nell’immaginario di stili musicali come l’hip hop e il rap (esistono anche delle classifiche delle citazioni in cui ai primi posti stanno Mercedes, Gucci, Versace e Louis Vuitton).

Ma se questo name dropping nei testi era del tutto coerente con il tipo di messaggio che certi artisti volevano dare, nel desiderio di ostentare ricchezza, adesso il fenomeno della pervasività delle marche di moda in ogni espressione della dimensione simbolica delle nostre vite si è espanso a dismisura.

I marchi sono passati dall’essere presenti nella musica e nel vicino mondo dell’arte, a farsi promotori di campagne politiche e sociali.

I grandi brand hanno stretto alleanze ovunque ci sia visibilità e consenso, sono quasi un corrispondente di quello che poteva essere la Chiesa nel Rinascimento; finanziano progetti artistici, creano centri culturali e fondazioni che ospitano il meglio della creatività contemporanea internazionale, grandi mostre e performance, ma il loro ruolo, ormai ben lontano dall’essere solo quello di dettare mode e vendere vestiti, ha oltrepassato anche il confine del mecenatismo per arrivare a occupare anche il terreno desertificato delle grandi battaglie ideologiche.

Il mercato sembra essere sempre più intelligente e furbo dei propri nemici e soprattutto è molto più veloce della politica.

Così, da che Nike era il nemico da boicottare vent’anni fa, con le sue campagne recenti si è trasformato in alleato di un pensiero politico progressista, facendosi portavoce di messaggi inclusivi e antirazzisti, dal Just do it a Black lives matter, senza perdere una fetta di clienti.

E se Dior è stato citato in decine di canzoni pop (da Mariah Carey a Kanye West, da Christina Aguileira a Post Malone) ottenendo una pubblicità gratuita che associa il marchio a uno stile di vita all’insegna dei soldi e del (presunto) buon gusto, questo non basta più: adesso Dior si è fatto portavoce delle battaglie femministe.

Sono appena incappata in un elegantissimo video in bianco e nero in cui la testimonial della borsa Lady 9522 è la famosa scrittrice e attivista Chimamanda Ngozi Adichie, autrice tra l’altro del bestseller Dovremmo essere tutti femministi (titolo slogan che compare su t-shirt bianche Dior da 750 euro).

Adichie ci ricorda che femminismo e femminilità non sono in contraddizione, anzi sono complementari. Il messaggio è perfetto, sintetico, chiaro, ha più di centomila cuori su Instagram, sicuramente molti più di quanti non ne possa raccogliere un’esponente politica di un qualsiasi partito di sinistra che parli dello stesso tema in un comizio elettorale.

Sia chiaro, non sto dicendo che sia un male che i brand siano alleati nella promozione dei diritti civili, che usino il loro potere comunicativo per farsi promotori di messaggi etici, anzi. Ma è sorprendente pensare come siano stati abili nel giro di pochi anni a passare dalla parte dei nemici da combattere a quella dei buoni da imitare. E il paradosso è che hanno avuto la strada spianata da tutti, forse anche dagli stessi che gridavano “no logo”.

Perché nel vuoto lasciato dalla repressione dei movimenti collettivi di inizio millennio e da una rappresentanza politica sempre meno credibile, si sono inseriti loro, i brand, con i loro soldi e i loro geniali comunicatori che ci persuadono sia giusto che il femminismo ci venga spiegato non più da un’attivista che ti ricorda che la lotta per la parità di genere è anche lotta di classe, ma da chi vuole venderti una borsetta da 4500 dollari.

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