Al botteghino, la pellicola ha realizzato un incasso di 379,3 milioni di yen (2,5 milioni di dollari) nel primo weekend di proiezione, il migliore per un film straniero dall’inizio del 2024, secondo il New York Times. C’è chi ha apprezzato il tentativo statunitense di fare i conti con quanto successo, ma ci sono tanti che hanno sentito la mancanza di un riconoscimento delle vittime e delle conseguenze. L’angoscia finale di Oppenheimer si dirige al futuro, più che a Hiroshima e Nagasaki.

L’ex sindaco di Hiroshima Takashi Hiraoka ha detto a un evento speciale organizzato per l’anteprima: «L’orrore delle armi nucleari non è stato illustrato abbastanza». Bbc News in un video condiviso su TikTok ha raccolto le opinioni di alcuni spettatori a Hiroshima: un’attivista anti nucleare si è detta offesa dalla visione, un’altra è rimasta disgustata dalla scena dell’esultanza davanti all’esplosione di prova, mentre una studente ha osservato che è stato interessante vedere la prospettiva statunitense e, per traslazione, del mondo occidentale.

#NoBarbenheimer

Del resto, il percorso del film è stato travagliato. Come ricostruito da Variety, Toho Towa, la società che di solito segue i titoli della Universal, non si è mossa per far uscire il titolo, e alla fine è stata la distribuzione indipendente Better Days a occuparsi del rilascio, dopo «mesi di riflessioni riguardo al tema e riconoscendone la particolare sensibilità per noi giapponesi», stando a quanto riferito in una nota.

Poi, mentre buona parte del mondo occidentale si divertiva con il Barbenheimer, e i social pullulavano di meme che mischiavano l’estetica del film di Nolan con la Barbie di Greta Gerwig, che usciva quasi in contemporanea, in Giappone la sovrapposizione della bambola Mattel con i funghi atomici è stata giudicata di pessimo gusto.

L’hashtag #NoBarbenheimer è diventato virale per qualche giorno, mentre l’account ufficiale giapponese di Barbie ha pubblicato un post in cui prendeva le distanze dal gioco di parole, ricordando che non si trattava di un movimento ufficiale. Warner Bros ha pubblicato poi un comunicato di scuse. All’uscita del film, in alcuni cinema di Tokyo dei cartelli segnalavano che sarebbero state presenti delle immagini di test nucleari che avrebbero potuto evocare i danni causati dalla bomba.

La pellicola è incentrata sul punto di vista di J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), tra dilemmi morali messi a tacere per la necessità militare e la realizzazione finale di avere innescato una catena distruttiva più grande di lui e di tutti noi.

Nel film non si vede l’esplosione della bomba sulle due città: la sorte delle vittime è affrontata brevemente in una sequenza onirica, ma non rappresenta i giapponesi. Oppenheimer immagina di calpestare i corpi quasi polverizzati dei suoi colleghi, di vedere la pelle che si stacca dal viso del pubblico a cui ha presentato i suoi studi.

Se in un altro dei grandi film di questa stagione, La zona di interesse di Jonathan Glazer, l’orrore di Auschwitz è tenuto ai margini dello schermo ma si insinua con il suono, persistente, e pervade la narrazione, in Oppenheimer non c’è proprio la voce delle vittime. Per molti, tuttavia, sarebbe già un risultato il successo di un film che non glorifica la bomba: il New York Times ha ricordato che nel 1995 lo Smithsonian Institute di Washington aveva tagliato parte di una mostra dedicata a Enola Gay, il bombardiere che aveva sganciato la bomba su Hiroshima, in seguito alle proteste dei gruppi di veterani e di alcuni membri del Congresso, per cui «il materiale proposto sollevava dei dubbi sulle ragioni degli statunitensi».

Rivivere il trauma

Già all’uscita a luglio il Los Angeles Times aveva interpellato alcuni cittadini statunitensi di origine giapponese: il poeta Brandon Shimoda in quell’occasione aveva raccontato che in tanti della sua comunità si erano interrogati sulla possibilità o meno di andare al cinema. In questo modo «il film, già prima di uscire, stava compiendo un’opera di re-traumatizzazione.

Il pubblico bianco, per la maggior parte, non ha dovuto fare questi ragionamenti. Poteva avere il lusso di intrattenersi e basta». Anche la figlia di una sopravvissuta, la scrittrice Kathleen Burkinshaw, aveva commentato: «So come finisce. Uccide i membri della mia famiglia. Sapevo che non potevo sopportarlo, specialmente adesso che so che non si parla o si mostra niente delle vittime di Hiroshima o Nagasaki, e nemmeno quelle di Trinity».

Il riferimento di Burskinshaw è alla popolazione nativa che viveva in New Mexico al tempo degli esperimenti di Los Alamos: gli abitanti hanno subito danni da radiazioni (tra cui il cancro e diverse morti infantili) dopo il test Trinity. Osservazioni molto simili a quelle riportate dal pubblico giapponese adesso.

Chi può raccontare

Questa ricezione complessa indica la difficoltà di raccontare una storia alle sue stesse vittime. A ottenere il plauso degli spettatori, su un altro passaggio nero della guerra tra Giappone e Stati Uniti, era stato invece Clint Eastwood, con la battaglia di Iwo Jima.

Sopravvissero circa un migliaio di soldati giapponesi su più di 20mila: è celebre la foto dei militari statunitensi che issano la loro bandiera sulla vetta del monte Suribachi. Eastwood realizzò due film: Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima. Si completano, perché raccontano i due lati della vicenda, uno dal punto di vista americano e l’altro giapponese.

«Si concentra sulla tragedia intrinseca della guerra, analizzando la percezione inventata dell'eroismo e trovando allo stesso tempo il tempo per commemorare le persone coinvolte» scrisse Collider. Uscito dal cinema, lo spettatore Hiromasa Murakami disse a Reuters: «É stato lo stesso per entrambe le parti. Tutti erano vittime».

In questo caso Nolan ha sempre sostenuto di aver voluto rimanere sull’esperienza singola di Oppenheimer, e di non tradire il suo punto di vista, ma rimane aperta la questione su come raccontare la bomba atomica: il regista Takashi Yamazaki (Godzilla minus one) in un dialogo con Nolan pubblicato su YouTube ha proposto di dirigere una risposta giapponese a Oppenheimer.

D’altro canto, lo stesso regista Akira Kurosawa era stato criticato per il suo Rapsodia in agosto, film del 1991 dove un’anziana sopravvissuta di Nagasaki che sta perdendo la memoria rimane a casa con i nipoti, troppo giovani per conoscere la storia.

Richard Gere è un parente statunitense, che arriva per porgere i suoi omaggi alle vittime della bomba. Presentato a Cannes, era stato attaccato dai giornalisti americani per aver ignorato le violenze commesse dal Giappone durante la guerra, mentre al Tokyo Film Festival gli anti-militaristi non lo avevano apprezzato per lo stesso motivo. Kurosawa aveva risposto che i giapponesi stessi erano vittime del sistema militarista.

La narrazione quindi non trova ancora una pacificazione. Lo scrittore Paolo Giordano nel suo libro Tasmania (Einaudi, 2022) racconta la commemorazione che si tiene ogni anno a Hiroshima e a Nagasaki. In un passaggio, l’amico con cui è in viaggio osserva: «Alla cerimonia non hanno menzionato gli americani. Mai. Trattano la bomba come se fosse piovuta dal nulla, come una catastrofe atmosferica».

Il Washington Post a sua volta ha sottolineato come il Giappone eviti discorsi «sulle ragioni e i torti» in queste ricorrenze, e ha condiviso un sondaggio della rete NHK del 2015, per cui il 40 per cento degli intervistati nel Paese (il 44 per cento a Hiroshima) pensava che alla fine fosse inevitabile per gli statunitensi lanciare la bomba.

La testata si augurava che l’uscita del film potesse riaccendere un dibattito non tanto sul passato, ma direttamente sulle armi nucleari, su cui il Giappone ha una posizione «ambigua». Come ha scritto anche il corrispondente da Tokyo di The Spectator, nonostante i commenti negativi sul film non c’è stata nessuna vera protesta, nessun picchetto. E la lobby anti nucleare giapponese, ritornata in auge dopo Fukushima, non ha più la stessa forza di allora.

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