Orietta Berti fu riscoperta attorno al 1997. Più di vent’anni fa, quando in tv Fabio Fazio cominciò a chiamarla “Oriettona” e Tommaso Labranca (che aveva fatto parte del primo gruppo di autori di Anima Mia) se ne innamorò perdutamente al punto da scriverne la biografia durante lunghe session telefoniche. «La Berti è la Berti è la Berti», celiava Tommaso, per il quale gli oggetti di studio erano sempre anche oggetti di piacere, mai colpevole. Avrebbe storto il naso in queste serate sanremesi per lo stylist della sua prediletta in comune con Achille Lauro? Che avrebbe detto della finta romanza partenopea sofisticata (Quando ti sei innamorata) portata in concorso dalla cantante emiliana 77enne con esito discreto (sull’attenti tutti i criticoni social), uscita dal diabolico laboratorio degli autori de Il Volo, il massimo in fatto di trash contemporaneo? Probabilmente si sarebbe divertito. In qualche modo il ritorno di Oriettona sul palco dell’Ariston va riletto come appendice della cupa biografia intellettuale di Labranca tracciata qualche mese fa nel bel volume di Claudio Giunta per Il Mulino. Ci torneremo.

Riscoperta, si fa per dire. Pure nei suoi grigi Eighties e mezzi Nineties non era mai andata via. Galleggiava nei revival della Fininvest per vecchie glorie, tra Nashville e la Brianza. Nel 1986, alla ricerca di nuove strade aveva portato al festival di Sanremo una canzone intitolata Futuro: «A voi russi e americani – si impuntava nel ritornello, o forse era il bridge – io non delego il suo domani/ su mio figlio non metterete le vostre mani». Curiosa denuncia ante litteram di un mondo governato dagli arcani complotti di «un re con un gran cavallo», scritta da Umberto Balsamo (autore di Italia di Mino Reitano) e Lorenzo Raggi (Il ballo del Qua qua), che si guadagnava la palma di uno dei massimi capolavori trash del periodo - moltiplicata per il palco dell’Ariston e la presenza nella stessa serata di Sting che cantava in playback la Russians originale pacifista antiatomica: «Spero che anche i russi amino i loro bambini». Bei tempi quando Sanremo faceva onestamente schifo.

Volksmusik

Labranca, aggiornando all’era televisiva i sacri testi di Susan Sontag, Eco, Dorfles, Dwight McDonald (masscult, midcult) ci avrebbe convinti di lì a poco che il trash era l’«emulazione fallita di un modello alto». Formula di un’efficacia disarmante. Little Tony e Elvis Presley. Orietta Berti e, almeno in quell’occasione, Sting. E tutta la “canzone impegnata” con una morale (che a Sanremo è un genere a parte, arriva a Willy Peyote «siamo schiavi dell’hype» ma questo è tutto un altro discorso). Con un ulteriore corollario. L’”ingenuità ruspante” di Little Tony impediva di affondare davvero i colpi. Quanto a Orietta Berti, Futuro andava letta come evoluzione fallimentare del personaggio di cantante popolare da operetta e fin qui ci siamo. Ma è proprio la sua innocenza – perfettamente inscritta nella sua voce cristallina da operetta, antimelodrammatica e priva di qualsiasi doppio senso -– che aveva su Labranca un effetto irresistibile: «Orietta Berti è stata per anni l’unica esponente italiana della Volksmusik, genere che nelle aree germanofone viene chiamato proprio così, senza vergogne, musica del popolo», scriveva. In effetti i dischi della fase ruggente di Orietta Berti (1967-1977) uscirono tutti per la Polydor/Phonogram che era un’etichetta tedesca grande specialista in schlager, la canzone da birreria. Avevano in catalogo James Last, il baffuto direttore d’orchestra da milioni di copie vendute e con lui Orietta incide il Tema di Lara, Zivago, ubriaca di whisky per imbroccare le note alte secondo l’aneddotica consolidata. Tutto molto europeo. Brennero autobahn. Secondo quanto la stessa Berti racconta nella sua più recente biografia Bandiere rosse e acquasantiere (Rizzoli) la pratica della casa discografica era questa: prima di entrare in sala di registrazione le canzoni da incidere venivano sottoposte «agli operai e agli impiegati degli stabilimenti Philips di Alpignano e di Monza». Si sceglievano quelle che loro preferivano. Per esempio Io, tu e le rose, che a lei non piaceva.

Nel bigliettino col quale nel 1967 Luigi Tenco in un hotel di Sanremo firmò il suo suicidio – tutto presunto, il biglietto e il suicidio – c’era scritto: «Faccio questo come atto di protesta verso un pubblico che manda in finale Io, tu e le rose». Uno “scherzo” terribile, umanamente parlando, per Orietta. Probabilmente non vero, assurdo, simbolicamente incancellabile. Crudele annuncio della successiva sfilata di canzoni della cantante emiliana scritte dai pesi massimi Daniele Pace e Mario Panzeri: Tipitipiti, Non illuderti mai, Finchè la barca va. «Il “personaggio Berti” – scriverà pochi anni dopo il cantautore e storico della canzone Gianfranco Manfredi – non è molto amato dal Gusto Piccolo Borghese Televisivo: nessun imitatore o comicastro da strapazzo la risparmia. Le viene rimproverato di essere goffa, di non seguire la dieta punti, di non essere giovanile». Nel 1967 Orietta ha 25 anni. Ce n’è abbastanza per farcela già stare simpatica. Adesso la consideriamo un’icona tanto per non sbagliare. Nell’Italia degli anni Settanta Orietta Berti è stata la personificazione di un mistero: quello del Popolare. Una specie di fantasma. Inseguito dalla sinistra, specie se estrema, un enigma che unisce come puntini gli operai che le scelgono le canzoni, i compagni che affollano i festival dell’Unità (lei canta a San Giovanni nel 1968 con Lucio Dalla per non so che vittoria elettorale prima del comizio del compagno Longo, e in decine e centinaia di festival padani), il pubblico televisivo di Sanremo. Fondamentalmente incomprensibile (e indigeribile), se non da un punto di vista acrobatico snob decadente. In questo Orietta Berti assomiglia a Claudio Villa, che la precede nel rappresentare la stessa vertigine. Nella sua biografia Orietta Berti ricorda di aver fatto un viaggio negli Stati Uniti con Claudio Villa, e un pellegrinaggio a Graceland da Elvis. Bingo. Pasolini amava molto Claudio Villa. Tutti i ragazzetti dei suoi romanzi di periferia cantano Claudio Villa quando sono contenti. Non sappiamo cosa pensasse di Orietta Berti, e di certo la sua visione del mondo si era parecchio incupita allora, Sanremo lo odiava. Attraverso Orietta Berti Tommaso Labranca condivideva in qualche modo la stessa romantica idea del Popolare. Nostalgica ormai, essendosi in quegli anni Novanta compiuta la trasformazione del Popolo in Audience e punti di share. Trovava molto bravo Fiorello ai tempi dei karaoke o poco oltre, quando non era facile sostenerlo: «Padroneggia perfettamente il proprio mezzo, e senza ipocrisie», scriveva (ma il bersaglio polemico erano il midcult di Calasso e degli Adelphi).

Poltrone vuote

Orietta Berti. Fiorello. Ecco trovata un’ultima funzione metaforica per le poltrone vuote dell’Ariston, giusto di fronte al palcoscenico che da cinquant’anni si affaccia sul nulla terrificante del pubblico e dei suoi arcani desideri. La cancellazione del Popolare. La fine del fantasma del Popolo inteso come nostalgia dello scomparso mondo contadino (di cui le canzoni classiche di Orietta Berti conservavano tutto il segreto). Il tramonto del corpo statistico dell’Auditel televisivo. L’era dei big data, delle visualizzazioni, della totale trasparenza. L’icona di Orietta Berti che ci accompagna da più di cinquant’anni in questo viaggio. La trasformazione del Festival di Sanremo da grande fallimentare affascinante evento trash a impalpabile cannibale celebrazione di sé stesso. In un’intervista recente Pasquale Panella, paroliere dell’ultimo Battisti che a Labranca piaceva moltissimo, parla di Finché la barca va e della lettura corrente negli anni Settanta secondo la quale la canzonetta scritta da Mario Panzeri (che aveva scritto pure Pippo non lo sa, e Papaveri e papere) era la perfetta rappresentazione dell’italietta democristiana. «Questo dipende dalla presunzione dell’ascoltatore di essere l’ermeneuta – dice – Così facendo però il pubblico perde tutto il resto, l’assimilarla come barca che dev’essere lasciata andare. Quella barca è la barca, se non vuoi godere pensa che sia altro». La Berti è la Berti è la Berti. Sanremo è Sanremo.

 

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