Tutte le finestre di casa mia affacciano sul secondo piano di un padiglione del Policlinico di Milano. Quando mi sono trasferita qui, un paio di anni fa, il secondo piano era in ristrutturazione e l’ospedale sembrava funzionare solo dal terzo in su: guardando verso l’alto dal mio divano potevo scorgere solo gli angoli dei piccoli televisori a muro e le sacche trasparenti delle flebo.

Ogni tanto compariva la schiena di un parente in visita, le spalle ricurve a malapena visibili oltre il davanzale, ma non essendo allineate le nostre finestre non si parlavano davvero. La malattia era qualcosa di vicinissimo eppure lontano, immaginario, e l’ospedale manifestava la sua esistenza solo attraverso il soffio continuo di una grossa ventola rivolta verso il mio palazzo, un rumore bianco che a volte la sera, quando chiudo gli occhi prima di addormentarmi, con un discreto sforzo creativo mi ricorda lo sciabordio del mare.

L’inquilino precedente del mio appartamento aveva lasciato delle piccole tende attaccate agli infissi. La loro funzione era chiara: arginare la vista del muro grigio dell’ospedale e di un grande albero sofferente di cui resta solo il tronco e il cui valore estetico è di poco superiore a quello di un palo dell’alta tensione.

Ma nonostante il loro nobile scopo, le tende sono finite nella pattumiera dopo 5 minuti dal mio arrivo. Le odiavo. In parte perché sono contraria alle tende a vetro – una delle tante fissazioni instillate dalla madre architetto – ma soprattutto perché dopo cinque anni nella mia casa precedente, che era praticamente un autobus mal illuminato, ero entusiasta di tutta quella luce.

La vista era orribile, la è ancora oggi (aggravata dalle zanzariere installate l’estate scorsa, che danno al mio salotto un tocco di terzo mondo), ma oltre al muro grigio e al tronco nudo potevo affacciarmi su un giardino, con l’erba e tutto quanto, e su un paio di alberi ancora in forma smagliante, che a Milano non è scontato.

Così vicino

Intanto il cantiere al secondo piano dell’ospedale era il più discreto che avessi mai visto. Ci lavoravano un paio d’ore al giorno, nel silenzio assoluto. Ogni tanto passava un muratore con una scala, ogni tanto la scala campeggiava aperta al centro della stanza, ma non c’era nessun segno evidente di progresso. «Non lo finiranno mai» pensavo compiaciuta mentre mi aggiravo nuda per casa, davanti alle mie finestre prive di tende.

Poi è arrivato il Covid, che a me onestamente non ha tolto niente, se non la libertà di girare nuda per casa. Infatti non so se per necessità, per sfinimento o per una pura coincidenza, ma nei primi mesi di pandemia il secondo piano era finito e in funzione e io all’improvviso dovevo vestirmi con discrezione, esibendomi nella camminata ingobbita del Grinch ogni volta che dalla doccia andavo in cerca di un paio di mutande.

Da un giorno all’altro, al posto dell’occasionale operaio affacciato alla finestra a fumare, mi ritrovavo davanti a infermieri vestiti da cosmonauti e gente col casco per l’ossigeno, inequivocabile promemoria del periodo di merda che stavamo passando.

E per la prima volta mi rendevo conto di quanto fosse davvero vicino l’ospedale: moltissimo. In termini numerici, una decina di metri. In termini cinematografici, La finestra sul cortile. In sintesi, abbastanza vicino da poter tentare di indovinare la ghigliottina dell’Eredità dai televisori dei pazienti.

Pazienti

In tempi di reclusione, l’ospedale ci ha messo poco a diventare la mia principale fonte di intrattenimento. Capita che piango, guardando gli uomini e le donne soli nelle loro stanze e vorrei dire che è perché quest’anno mi ha reso più vulnerabile, ma purtroppo non è così: sono sempre stata una mammola psicolabile.

Capita che qualcuno di loro vada al bagno senza chiudere la porta e io mi ritrovi ad assistere a un bidet a sorpresa, da cui distolgo lo sguardo come faccio coi cani accucciati e tremanti che espletano i loro bisogni nelle aiuole. Per un periodo c’è stata una signora che mi salutava con la mano ogni volta che mi affacciavo a sbattere la tovaglia dalla finestra – un gesto incivile di cui mi vergogno, ma che va a braccetto con la zanzariera delle favelas – e poi un giorno non l’ho più vista. Al suo posto è arrivato un ragazzo, che sembrava piuttosto interessato ai miei allenamenti delle 18.30. Mi manca la signora, pensavo abbassando le tapparelle.

Di recente un lenzuolo è volato fuori da una finestra ed è rimasto impigliato tra il secondo e il terzo piano, dove ha continuato a svolazzare per settimane, regalando un nuovo elemento estetico alla nostra vista e un brivido di eccitazione alle nostre vite monotone: tale è la noia di chi non esce di casa da tempo immemore. Lo abbiamo fissato per ore, in attesa di vederlo cadere.

Filmavamo le sue oscillazioni, la colonna sonora di American Beauty nella nostra testa. Gli dedicavamo Bandiera bianca di Battiato. Quanto avrebbe resistito? Ci avrebbe messo meno lui a cedere alle intemperie o noi a cambiare casa? Si sarebbe arreso al vento, alla pioggia, o sarebbe rimasto a sventolare per sempre? Quando infine si è staccato ho pianto in silenzio. Mammola psicolabile.

Ipocondria

Guardare dentro un ospedale tutti i giorni mi ha insegnato delle cose: niente ti aiuta a rimettere in prospettiva le tue angosce come avere davanti agli occhi un’infilata di sconosciuti che stanno peggio di te. Pensare alle sventure altrui è un buon modo per ridimensionarsi, vederle è un ricatto morale.

È lo stesso effetto che mi ha fatto guardare su Netflix le due stagioni del documentario Making a Murderer, la storia di un uomo del Wisconsin che sta scontando un ergastolo per un omicidio che non ha commesso. Cosa vuoi che sia il coprifuoco alle dieci? Che me ne frega di andare al ristorante? Almeno io posso usare il telefono quando mi pare.

Un’altra conseguenza della mia continua esposizione a questa specie di acquario delle malattie è una crescente preoccupazione per il mio stato di salute, che ha messo il turbo all’ipocondria latente che covavo da tempo. Un mal di testa dev’essere per forza un tumore, un raschietto alla gola è tubercolosi, se sento un odore strano sto avendo un infarto.

Tuttavia questo non si traduce in nessun tipo di controllo medico: da mesi rimando il test per la celiachia, incapace di accettare l’eventualità di una vita priva di carboidrati complessi, pertanto non degna di esser vissuta.

Respirare male

Dopo un anno passato a sentir parlare di patologie respiratorie, ad auto-diagnosticarmi morbi incurabili e a guardare gente intubata mentre apparecchio la tavola, pensavo di essere arrivata a saturazione sul tema salute. Ma poi ho letto L’arte di respirare di James Nestor (un New York Times Bestseller da poco uscito in Italia per Aboca), saggio molto interessante sulla centralità del respiro corretto – che mi sento di consigliare soprattutto a chi non è già intrappolato in una spirale paranoica come me – che mi ha fornito una risposta univoca a qualsiasi dubbio.

Sei insonne? Probabilmente è perché respiri male. Hai i denti storti? È perché respiri male. Sei sovrappeso? Respiri male. Non c’è niente di cui vergognarsi: a quanto pare il 90 per cento dell’umanità non sa fare neanche la cosa più facile del mondo. Non sappiamo respirare.

Tra la storia di un medico indiano che perde diversi chili cambiando il modo in cui inala l’aria (invece di sostituire qualsiasi pasto con tre fette di bresaola come facciamo noialtre), scimmie dalle narici tappate, antichi testi cinesi, apneisti e “polmonauti”, Nestor traccia una mappa accurata della pratica più ignorata e vitale del mondo.

«Parte di quello che scoprirete rovinerà i vostri giorni e le vostre notti» dichiara Nestor nell’introduzione. In questo caso li ha rovinati solo al mio fidanzato che se prima veniva vessato dalla sottoscritta per il suo vizio di respirare con la bocca, ora è costretto a subire le medesime angherie, ma supportate da argomentazioni scientifiche. Ma chi sono io per giudicare? Dopotutto mi strozzo con una frequenza allarmante e ho il fiatone dopo una rampa di scale.

Monitorare il sonno

La lettura di Nestor mi ha anche fatto dono di un nuovo giochino che non conoscevo e di cui non sapevo di avere bisogno: l’app per monitorare il sonno. Adesso tutte le sere, prima di spegnere la luce, appoggio il telefono sul comodino e avvio la registrazione di Sleep Cycle, per poi riascoltarla la mattina mentre faccio colazione.

Tutti i suoni rilevati nel corso della notte vengono catalogati con etichette grammaticalmente discontinue: tosse, russare, parlare, movimento. Abbiamo scoperto che il fidanzato asmatico tossisce con regolarità matematica e che io ridacchio e mi lamento, che è praticamente tutto quello che faccio anche da sveglia. Nessuno dei due ha ancora scoreggiato, o forse Sleep Cycle sa che certi rumori è meglio lasciarli all’oblio.

Così ora vado a dormire ogni sera assillata dal pensiero delle apnee notturne, ma anche morbosamente rassicurata all’idea che se uno di noi muore nel sonno avrò il documento audio del momento in cui è accaduto. Mentre mi giro e mi rigiro, improvvisamente troppo consapevole del flusso d’aria nelle mie narici, mi viene in soccorso la ventola dell’ospedale e finalmente trovo pace, cullata dalle onde del mare.

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