Pensiamo che il greco antico sia fuori dalle nostre vite e dalle nostre case. Eppure è vero il contrario. L’accidia tendiamo a non ricordare mai cosa sia e spesso la scambiamo per semplice pigrizia. In realtà si tratta di qualcosa di ben più profondo, si tratta di una sorta di catena mentale di cui capiamo la portata attingendo proprio al greco. L’accidia è a-kedìa, per i greci una mancanza di cura che porta a lasciarsi andare senza prendere in mano la propria vita. Gli antichi infatti avvicinano la parola cura a cor, il cuore, ma anche alla radice kau - che significa osservare intendendo la cura come il saper vedere, oltre che guardare, sé stessi e gli altri.

Questo torpore dell’anima e dell’intelligenza è uno dei sette peccati capitali e Dante, durante il suo viaggio con Virgilio, nella Divina Commedia incontra gli accidiosi per ben due volte, prima nell’inferno e poi nel purgatorio. Nella prima il poeta li trova nella palude Stigia, il fiume infernale, immersi nel fango melmoso. Di loro si percepisce a malapena una voce, anime anonime come lo furono in vita, che sotto forma di cantilena ripete «tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra/ or ci attristiamo ne la belletta negra» (v. 123). Questi dannati malinconici condividono nel quinto cerchio dell’inferno con gli iracondi che in vita si sono macchiati del peccato opposto lasciandosi trascinare da un’aggressività incontrollata.

Ora galleggiano in superficie destinati anch’essi a replicare in eterno il loro comportamento di sempre, picchiandosi e sbranandosi a morsi. Quando Dante e Virgilio incontrano nuovamente gli accidiosi nella quarta cornice del purgatorio, i peccatori sono ora occupati in una corsa affannosa, ininterrotta e ansiosa quasi a compensare la loro precedente vita passiva. Un incontro tanto rapido quanto suggestivo per l’atmosfera notturna, illuminata dalla piena, in cui si svolge, per le immagini che ci evoca così forti nello stato d’animo che viviamo da più di un anno a questa parte.

Cambiare occhiali

Affaticati come siamo da uno sfinimento psicologico, fisico e pandemico, conosciamo più da vicino momenti depressivi che rischiano di incatenarci e, soprattutto, rischiano di incatenare i nostri giovani che non ne sono certo immuni. In molti ragazzi in questo momento è forte la tentazione di rinchiudersi in sé stessi e nel loro universo parallelo fatto di social e poche relazioni in carne e ossa, tentazione nata da una abitudine imposta dalle logiche di una epidemia. Occorre prenderne atto, occorre guardare con occhi attenti alla noia e all’apatica in cui molti nostri figli e studenti rischiano di cadere imprigionati. La loro mancanza di entusiasmo può mette a rischio la loro voglia di futuro. Nessuno ha una bacchetta magica contro l’accidia ma delle riflessioni da condividere, quelle sì.

La prima è che la ricetta contro la tristitia dantesca è far leva sugli amori della nostra vita, tutti ne abbiamo, facciamo che siano occhiali bifocali da usare in una fase di momentanea cecità. Affidarsi a loro (amici, professori, genitori che siano) con fiducia nel fatto che in questo preciso istante sanno vedere ciò che un ragazzo nel vortice della disperazione non riesce a vedere coinvolto com’è nel gorgo della mancanza di interesse per la vita reale.

Dedicarsi a chi ha bisogno, le città pullulano di associazioni di volontariato. Perché immergersi nell’umanità risveglia la nostra e perché è esso stesso una forma di amore profondo. Che l’amore non è una strada ma è la strada ce lo ricorda anche Dante a noi e probabilmente anche a sé stesso proprio quando sta per incontrare gli accidiosi durante il suo viaggio in purgatorio. È proprio così che si apre il diciottesimo canto, con una domanda (che è quella di sempre) che Dante rivolge al suo maestro: «Ti prego che tu mi dimostri amore a cui reduci ogni buon operare e il suo contrario» (vv. 14 – 15). Cos’è l’amore? Qual è la sua natura? E la risposta è disarmante. L’animo umano ha una disposizione innata ad amare, siamo fatti così per natura.

Amore e curiosità

Sperando di instillare la curiosità di rileggere per intero questo canto magnifico e di lasciarsi trasportare dai pensieri a cui porta sul senso della nostra capacità di amare e di scegliere, qui interessa ri-cordare che dobbiamo ri-impossessarci della nostra capacità di amare. Per travasarla su chiunque ne abbia bisogno, a partire dai nostri figli e dai nostri studenti. L’amore (o l’eros, per dirlo alla greca) è il nostro motore di senso. Una seconda e non meno importante ricetta contro l’accidia è la curiosità, che è sempre figlia della cura. Chi è cur-ioso ha cura di conoscere e darsi o ridarsi un orizzonte.

Non è questo il momento storico per comportarsi come i giovani troiani, compagni di Enea che, scoraggiati e sul più bello, si fermarono in Sicilia, non poterono partecipare alla conquista del Lazio e, in prospettiva, alla gloria di Roma. Non a caso si trovano nella quarta cornice del purgatorio insieme agli altri accidiosi. Credo sia piuttosto il momento di mettere in campo tutta la curiosità e il rispetto della propria intelligenza di cui i ragazzi sono capaci (e ne sono capaci) e fare delle loro giornate una continua esperienza di scoperta. Sfoderare la voglia di sperimentare e conoscere, essere un po’ Archimede in pectore.

Di lui andrebbero raccontate moltissime scoperte che ci accompagnano ancora oggi, ma è di buon auspicio concludere ricordando l’aneddoto secondo cui, raccontano le fonti antiche, un giorno sarebbe uscito nudo dal bagno urlando “eureka” un verbo greco che significa “ho trovato”, felice per aver intuito come poter calcolare il peso specifico dei corpi. Di buon auspicio perché le vite dei nostri giovani siano piene di “eureka”.

Nel 1935 ad Archimede, che fece anche importanti studi astronomici, fu dedicato un cratere lunare, Archimedes appunto. Di buon auspicio perché alzare lo sguardo verso la luna diventi un desiderio di alzare lo sguardo.

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