Ada Gobetti, sollecitata da Benedetto Croce a pubblicare il suo Diario partigiano nel 1956, lanciava il suo appello: bisognava cercare le donne che in vario modo avevano partecipato alla Resistenza e stimolarle a raccontare, a scrivere quello che avevano vissuto.

Nell’immediato dopoguerra, infatti, la narrazione identitaria dell’Italia post-bellica, antifascista e repubblicana, aveva privilegiato la figura del partigiano, reiterando l’immagine dell’uomo d’arme, dell’eroe militare. Non furono subito incoraggiate le testimonianze delle donne che in vario modo avevano partecipato alla lotta di liberazione e anche tra i romanzi si scelse di puntare su alcuni più di altri.

Protagoniste rassicuranti

LaPresse

Primo fra tutti l’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò. La sua protagonista non più giovanissima, materna, entrata nella lotta partigiana sotto la spinta emotiva del dolore per la morte del marito, rassicurava una società ancora retrograda.

Miriam Mafai, ricostruendo in Pane nero (1987) i giorni della guerra e della Resistenza, raccontava proprio quel misto di curiosità, di ammirazione, ma anche di sospetto che circondava le donne che si erano impegnate nella lotta. «È comprensibile», scrive, «anche ammirevole, che una donna abbia offerto assistenza a un prigioniero, a un disperso, a uno sbandato, tanto più se costui è un fidanzato, un padre, un fratello. Questo rientra ancora nelle regole. L’ammirazione e la comprensione diminuiscono quando l’attività della donna sia stata più impegnativa e determinata da una scelta individuale, non giustificata da affetti e solidarietà familiari».

La stessa Joyce Lussu, partigiana, azionista, medaglia d’argento al valor militare, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, nell’immaginario collettivo è stata più spesso associata al marito Emilio. Eppure, quando nel settembre del 1943 il Cln dovette sostituire i tre uomini che non erano riusciti a passare le linee nemiche fu lei ad offrirsi di rischiare per raggiungere il sud liberato. La sua esperienza di resistenza raccontata da Fronti e frontiere (1946) a Portrait (1988), passa per L’uomo che voleva nascere donna (1978), che rappresenta ancora oggi un monito a partecipare attivamente alla vita politica del paese. Le donne dovrebbero essere più presenti nei centri decisionali, nei servizi di sicurezza e delle forze dell’ordine, al ministero della Difesa. Dovremmo tutti chiedere conto delle spese militari, delle forniture di armi, di quanto investiamo per la pace e quanto per la guerra. 

La rivoluzione è femmmina

AP

Nel 1949, l’anno de L’Agnese va a morire, venivano pubblicati anche Dalla parte di lei di Alba de Céspedes e Il fosso di Laudomia Bonanni. Il romanzo di de Céspedes, recentemente riedito – complice una più generale riscoperta dell’autrice – riscosse un largo consenso di pubblico, qualche polemica e una critica contrastante ma comunque efficace. Un romanzo di formazione in cui la presa di coscienza della protagonista sulla condizione della donna non coincide a pieno con il progetto collettivo di riformare l’Italia.

Alessandra, io narrante del romanzo, che ha sempre odiato «i maschietti che giocavano alla guerra», non può che constatare l’esistenza di un muro che separa uomini e donne, mariti e mogli. Dopo aver preso parte alla resistenza civile romana, dopo aver capito «che un uomo può tremare e una donna restare impavida durante un bombardamento di artiglieria» sa che le donne non possono e non devono più sopportare un ruolo subalterno, quello a cui sono state relegate per secoli. E non ci mette molto a convincere il lettore della sua innocenza perché «tutte le donne sono innocenti».

La raccolta di racconti di Laudomia Bonanni che, ancora inedita, aveva vinto il Premio degli Amici della domenica fu, all’epoca, un successo di critica e pubblico, che oggi non ha (ancora) rinnovato la sua fortuna. Protagoniste la guerra e le donne: donne che attraversano città bombardate, che cercano di dare ordine al caos seguito all’8 settembre, donne che sostengono da sole il peso della famiglia in mezzo alla tragedia della guerra e della povertà.

Probabilmente negli stessi anni Laudomia Bonanni aveva già dato vita a un altro personaggio, che diventerà protagonista del romanzo La rappresaglia, rifiutato da Bompiani nel 1985 e pubblicato postumo. La Rossa è una partigiana catturata e condannata a morte dai fascisti sulle montagne abruzzesi, che rivendica una superiorità biologica della donna e per questo diventa metafora di ogni rivoluzione: «La rivoluzione è femmina, partorisce da sola come me».

Nella città occupata

In una rappresentazione quanto più diversificata delle donne nella Resistenza andrebbe riletto I coetanei (1955) di Elsa de’ Giorgi, attrice cinematografica e poi teatrale, saggista e scrittrice, insignito del Premio Viareggio per un’opera sull’armistizio dell’8 settembre. L’esperienza diretta dell’autrice in un testo a metà strada tra il romanzo autobiografico e il memoir, si impreziosisce del racconto in presa diretta della guerriglia partigiana nei pressi di Volterra di Sandrino Contini Bonacossi, che diventerà poi suo marito. È, però, proprio la parte dedicata alla sua esperienza di attrice e di intellettuale, in mezzo ad artisti, scrittori, personalità di spicco della politica e la sua partecipazione alla resistenza civile a rendere il romanzo un documento importantissimo sui giorni della guerra e della liberazione di Roma.

La città, «in mano alle donne» per i nove mesi di occupazione, presenta una varietà di figure femminili. Non manca la rappresentazione dello stereotipo che le vuole calate nel ruolo più tradizionalmente reputato idoneo di accoglienza e cura, ma anche per loro arriva il momento di agire. La bomba lanciata da una ragazza in bicicletta, le proteste di giovani e anziane per il pane, l’attacchinaggio clandestino, fino all’attentato di via Rasella costituiscono le varie forme di resistenza con cui le donne romane, come tutte le altre rimaste nelle città da liberare, affiancarono gli uomini. Come le partigiane in montagna, protagoniste di esperienze del tutto nuove, anche le donne in città sperimentarono un momento straordinario, destinato a cambiare il rapporto tra i sessi.

Storia di tutte 

Nel 1963, mentre si esauriva definitivamente lo slancio della memorialistica di stampo neorealista, Giovanna Zangrandi pubblicava il resoconto della sua esperienza nella Brigata Calvi. Lo titolava I giorni veri, perché fosse chiaro l’intento di una verità storica e di una verità interiore da trasmettere alle generazioni future. Si rivolgeva «ai giovani ignari, infarciti di scolastiche storie di medievali guerre, re e date», a cui bisognava necessariamente raccontare «questa nostra storia di ieri», questa Resistenza che a differenza del Risorgimento «fu più vasta, spontanea, popolare, non sorse solo dai salotti, ma tanto e più dalle cucine, dai casolari, dalle fabbriche», che in nome della libertà era riuscita ad affiancare come non mai intellettuali e masse e tanto doveva proprio alle donne.

Il suo sembrava, in verità, un nuovo punto di partenza e, infatti, da lì a poco la storiografia ha iniziato a occuparsi in maniera più sistematica del ruolo delle donne nella lotta di Liberazione e così la critica letteraria.

Dagli studi di Anna Bravo con Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, dalla ricerca accademica ai volumi più divulgativi, da Marina Addis Saba a Gabriella Gribaudi, da Michela Ponzani a Benedetta Tobagi, da Marina Zancan a Laura de Nicola e Valeria Paola Babini (per citarne solo alcune) oggi siamo in grado di conoscere e riconoscere il ruolo femminile in quel laboratorio di democrazia che è stata la Resistenza. Un’esperienza diversificata che ha ancora molto da dire alle donne di oggi, che lottano contro stereotipi e generalizzazioni, e a quelle di domani.

Come scriveva de Céspedes nella premessa al numero speciale di Mercurio il mensile di politica, arte, scienze che aveva fondato e diresse nella Roma appena liberata dai nazifascisti: «Sopra queste gesta si è costruita una storia. Ed è storia d’Italia». La storia di tutti.

© Riproduzione riservata