Venne in Italia a suonarvi per la prima volta nel settembre del 1979, domenica 9 a Bologna e lunedì 10 a Firenze. E avvenne l’impensabile, con stadi riempiti all’inverosimile: i conti esatti non fu mai possibile farli, perché a un certo punto gli ingressi vennero aperti anche a chi il biglietto non lo aveva per scongiurare disordini, allora all’ordine del giorno nei casi – rari – di concerti rock di artisti internazionali.

Ma stime attendibili fissarono in 140mila gli spettatori. Una cifra che nessuno si aspettava: basti dire che la data bolognese era prevista inizialmente non al Dall’Ara ma nell’angusta area dell’antistadio.

Fu un autentico ciclone, quello che Patti Smith portò in Italia - senza volerlo e suo malgrado - al tramonto del decennio più lungo del secolo breve: un ciclone che oggi rivive in Rumore rosso, volume appena pubblicato dal Saggiatore a firma Goffredo Plastino, musicologo calabrese della Newcastle University.

E il sottotitolo, “Patti Smith in Italia: rock e politica negli anni settanta”, ne riassume il contenuto solo per difetto, tanto monumentale è la documentazione che l’autore ha accumulato per anni e su cui ha costruito questo saggio, per il quale parlare di “opera-mondo” non è esagerato. Un mondo se vogliamo limitato nel tempo e nello spazio (poche settimane di fine estate di un solo anno, un paese come l’Italia allora ai margini dei circuiti del grande rock) ma frutto di un fenomenale carotaggio che, come vedremo, nulla tralascia.

Il caso 7 aprile

Prima di affrontarlo, occorre tratteggiare almeno sommariamente il contesto in cui saettò in Italia “Patti la Santa”, fresca reduce da un quarto album, “Wave”, in cui si presentava in copertina colombe sulle mani (oltre che con una sorprendente infatuazione per papa Luciani).

Un’Italia in cui lo shock per la tragedia di Aldo Moro ancora non era stato riassorbito, ma i cui strascichi continuavano a riverberarsi politicamente: ad esempio, con il rifluire dell’ondata elettorale che da anni alimentava la crescita del Partito comunista (e con l’uscita dei comunisti dalla maggioranza di governo figlia del compromesso storico).

E questo rifluire aveva anche a che fare con un’altra questione politicamente enorme: il caso 7 aprile, cioè la “decapitazione” per via giudiziaria di quell’area dell’autonomia che proprio nel Pci (oltre che in Cossiga, ma scritto con la K) vedeva il principale nemico, come si era visto in maniera palmare e drammatica due anni prima proprio a Bologna, teatro prima della morte dello studente Lorusso per mano della polizia e poi di un tesissimo convegno sulla repressione in Italia.

Rock e politica

E poi la musica, con scontri da anni tra giovani e polizia in occasione di concerti, in una iper politicizzazione di cui il fenomeno dell’autoriduzione era solo la punta dell’iceberg.

Led Zeppelin, Traffic, Santana, Lou Reed: l’elenco dei grandi nomi del rock le cui esibizioni italiane erano finite a botte e lacrimogeni non finirebbe più.

Un black out pressoché completo dal quale restarono fuori solo pochi eccentrici, come il giro canterburyano di Robert Wyatt e degli Henry Cow, in occasione nel 1975 di un memorabile concerto romano in piazza Navona, targato però in qualche modo politicamente (“Stampa alternativa” di Marcello Baraghini e la rivista “Muzak”, entrambi di area culturale vicina alla sinistra extraparlamentare).

Perché il connubio che in Italia si registrò tra rock e politica fu qualcosa di totalmente pervasivo, tanto da figliare per tutti gli anni Settanta un circuito distributivo ristretto ma capillare, tra feste dell’Unità, festival di Re Nudo e le mille iniziative di realtà come Lotta Continua, Avanguardia operaia e i Circoli ottobre.

La poetessa urbana

Fu dunque nelle città più rosse d’Italia, Bologna e Firenze, che planò Patti Smith, strana “rockeuse” partorita dall’America, né punk né figlia dei fiori fuori tempo (o almeno non associabile per esteso ad alcuno dei due poli), bensì poetessa urbana compenetrata da una cultura, quella della sua New York, in cui allora passava un po’ di tutto.

L’Italia allora se ne innamorò come nessun altro paese, equivocando in larga parte il suo profilo. E d’altra parte l’industria discografica ci mise ampiamente del suo.

Rumore rosso lo certifica in maniera precisa, offrendo infatti una potente carrellata iconografica in cui, oltre a fantastiche immagini dei due concerti (e soprattutto del pubblico che in quei giorni aveva fatto delle due città un immenso camping), spuntano immagini promozionali della artista e dei suoi dischi prodotte per la stampa italiana, in cui si giocava su più registri.

A chi apparteneva?

A lasciare senza parole, sono però le dimensioni e l’intensità del dibattito che quei due concerti scatenarono. Nessuno ne rimase fuori: dalla stampa musicale specializzata ai quotidiani mainstream, dalle radio allora “libere” ai telegiornali del servizio pubblico.

E soprattutto i giornali politici. Si rimane stupefatti dalla quantità di articoli esaminati dall’autore, da un lato per via dell’acribia enciclopedica, dall’altro per la constatazione del livello degli interventi.

Che in gran parte non erano musicali in senso stretto, bensì mossi da una domanda che rivelava la natura del meccanismo (e soprattutto dell’equivoco) in cui la cantante rischiò di venire stritolata. E la domanda era in sostanza questa: a chi apparteneva Patti Smith?

Il terrore dei musicisti

Gli aneddoti in questo senso si sprecano: ad esempio, il tentativo di quegli intellettuali (Gianni Sassi della Cramps, “Bifo” Berardi, l’area della rivista “Alfabeta”) di strapparle un intervento a favore di Nanni Balestrini, latitante in seguito agli arresti del 7 aprile.

Oppure, le reazioni stupefatte di chi a Bologna, arrivando allo stadio circondato da giovani accampati come nei giorni del convegno sulla repressione, la sentì dire: «Oggi è domenica: dite a questi ragazzi che farebbero bene ad andare a messa».

E ancora, le reazioni del pubblico quando sul palco a un certo punto, assieme a lei e alla band, spuntò anche la bandiera americana: fischi, pugni chiusi, il lancio di decine di lattine e mani con le tre dita a pistola, uno dei simboli classici durante le manifestazioni dell’area più dura dell’autonomia.

Per non parlare del terrore degli stessi musicisti quando, all’ingresso degli stadi e al rientro nei camerini, dovettero passare tra file di poliziotti e carabinieri armati fino ai denti.

E tutto questo dopo mesi in cui l’editoria giovanile si era nutrita di una Patti Smith presunta ribelle irriducibile, per giunta dal profilo artistico altissimo, producendo più pubblicazioni di testi delle sue canzoni e delle sue poesie.

Riconquistare i giovani

L’appartenenza di Patti Smith a questo o a quel campo (il punk, il rock, la poesia, l’America a stelle e strisce o il sovversivismo internazionale) non poteva costituire un fattore indifferente. E alimentò una polemica fittissima, soprattutto perché entrambi i concerti vennero organizzati dall’Arci, dunque da un’organizzazione del Pci (la scelta delle location non fu casuale).

Fu quindi inevitabile che il mini tour della artista, preceduto da una straniante apparizione veneziana in veste appunto di poetessa, per un happening ristretto nell’ambito della Biennale, venisse letto come il tentativo del partito di Berlinguer di riportare dalla propria parte quei giovani che politicamente gli erano sempre più distanti.

Il carteggio

Lo sintetizzò Stefano Benni su Panorama in un esilarante finto carteggio tra il segretario comunista e la cantante, di cui qui c’è spazio solo per un minimo stralcio: «Dear Patti, ho telefonato a D’Alema, il nostro esperto giovanile, e gli ho detto: senti, questa Patti Smith che piace tanto ai ragazzi, prendiamola. Lui ha detto di no, queste son robe da Nicolini (l’allora assessore romano alla cultura, ndA), costa troppo, è sballata. Ma io ho insistito: senti, piuttosto che doverci confrontare con questi giovani rompiscatole o ascoltarli davvero, quando ci criticano preferisco dargli un bel po’ di musica. Perché per noi 30mila in uno stadio sono spettatori, 30mila in una manifestazione sono autonomi».

E la risposta, folgorante: «Avevo dei dubbi: ma poi ho letto il tuo saggio e ho capito. È vero Enrico, sei più sballato di tutti gli sballati di San Francisco e della Bowery messi insieme. Vengo: e mi farai provare quell’erba che, da un po’ di tempo in qua, tu fumi quando fai politica. Non dirmi che non ci dai anche tu, vecchio Junkie. A presto. Yours Patti».

Tutta l’Italia

Che cosa furono quei due pazzeschi concerti e tutto ciò che ci girò attorno? Un mare di cose, che Goffredo Plastino elenca minuziosamente, in un esempio di microstoria la cui profondità ha davvero pochi eguali.

E oggi che cosa ne resta? Le parole con cui si conclude il libro, dopo una cavalcata appassionante, lo dicono come meglio non si potrebbe. Si cita infatti la stessa Patti Smith: «Se mi capita di camminare per strada, in Italia, c’è sempre qualcuno che mi si avvicina, e può essere un cuoco o un rappresentante del governo, e mi dice: Patti, io ero a Bologna. Sembra che tutta Italia, quella sera, fosse a Bologna...».

E l’autore: «In un certo senso è proprio così: c’eravamo tutti e ci siamo ancora, continuiamo ad ascoltare il rumore rosso di quei giorni, di quegli anni». Chapeau.


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