Pazza idea: in memoria di Brian Wilson

C’è un video. Brian Wilson è seduto su un prato. Indossa una camicia nera con immancabile fantasia floreale. Lo sguardo fisso in camera, vuoto di qualsiasi emozione, la voce monotono. A un certo punto inizia a ondeggiare nervosamente quasi che non riuscisse a trattenere qualcosa dentro di sé. La voce fuori campo lo incalza. «Il tuo album preferito dei Beach Boys?» «The Beach Boys love you». «La canzone preferita dei Beach Boys tra quelle che hai scritto?» «California Girls». «La canzone preferita dei Beatles?» «Let it be». «La canzone preferita dei Rolling Stones?» «My obsession». A questo punto il ritmo incalzante della conversazione subisce una variazione. L’intervistatore si zittisce. Non ci crede. «Veramente?» «Sì». «È una canzone così oscura». Brian Wilson è morto lo scorso 11 giugno. Paul McCartney ha scritto che aveva in sé un intuito, la capacità «misteriosa» di percepire le cose propria del «genio musicale». Questo rendeva le sue canzoni «dolorosamente speciali», mentre «le note che sentiva nella sua mente e ci trasmetteva erano allo stesso tempo semplici e geniali». Brian Wilson aveva quasi 83 anni, li avrebbe compiuti il 20 giugno. La maggior parte li ha trascorsi vagando nel labirinto della propria mente alla ricerca di qualcosa. Una storia travagliata fatta di eclissi ed epifanie intrecciata indissolubilmente a quella della sua creatura, i Beach Boys, il gruppo che aveva fondato insieme ai fratelli Carl e Dennis, al cugino Mike Love e all’amico Al Jardine. Il gruppo che, grazie al suo «genio musicale», ha realizzato Pet Sounds. Album ispiratore per contemporanei e posteri. Elsa Morante, la donna bambina che voleva di più Della lotta tra Wilson e la sua “mente pericolosa” molto si sa e molto si è scritto. Anche lui non ne ha mai fatto mistero. «Non è un segreto che abbia convissuto con problemi mentali per svariati decenni – scriveva nel 2019 annunciando il rinvio del suo imminente tour – C’è stato un momento in cui è stato insostenibile, ma con l’aiuto dei medici e delle medicine ho potuto vivere una vita fantastica, in salute e produttiva, anche grazie al supporto della mia famiglia, degli amici e dei fan che mi hanno accompagnato attraverso questo viaggio. Molta della musica che ho fatto ha rappresentato la mia strada per disfarmi delle voci che avevo nella testa». Disturbo schizoaffettivo, depressione maniacale, disturbo schizofrenico paranoide. La fredda grammatica delle diagnosi non sembra sufficiente per provare a dare un senso a quella «luce luminosa» (sempre McCartney) che tanti hanno visto e riconosciuto. E l’abuso testimoniato di droghe, soprattutto Lsd e cocaina, non fa certo di Wilson un’eccezionalità nel panorama musicale di quel periodo. Sullo sfondo una domanda: Wilson era un genio diventato pazzo o un pazzo che, in quanto tale, non poteva non produrre cose geniali? In molti si sono occupati del rapporto tra disturbi mentali e creatività. Dopotutto quella del “genio folle” è una figura intrisa di romanticismo. Ne parlava già Platone sottolineando, nel suo Fedro, come non ci si potesse avvicinare alla poesia senza la «mania delle Muse»: «La poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania». Mentre Shakespeare poneva su uno stesso piano ideale il pazzo, l’amante e il poeta. Persino Umberto Eco, in una sua celebre Bustina di Minerva, indagava il tema domandandosi se ognuno di noi, in fondo, non contenesse un seme di follia in grado di spuntare improvvisamente producendo talvolta esiti criminali e, talvolta, straordinarie creatività. Epitaffio: la città dei vivi, la città dei morti In realtà il problema principale, forse all’origine di un grande equivoco, è che nessuno sembra in grado definire in maniera univoca cosa siano la creatività e la follia. «Sicuramente c’è un lampo – dice Stefano Bartezzaghi, enigmista, giornalista e semiologo – una visione iniziale che si discosta da ciò che è usuale». Ed è forse questo, unito alle storie di tanti, artisti, musicisti, scrittori, che hanno riunito in sé i sintomi della malattia mentale e le intuizioni del genio, che ha prodotto una certa mitologia. Perché se la creatività è la capacità di “deviare” dalla normalità delle cose, la follia non può che essere la strada attraverso cui questa “deviazione” avviene in maniera più evidente e semplice. Insomma è grazie alle psicopatologie se i geni possono trova l’ispirazione e potenziare la loro capacità di guardare la realtà in maniera “divergente”. Ma è qui che Bartezzaghi ricorda una citazione, attribuita a Thomas Edison, secondo cui la formula della genialità si può riassumere in un «one per cent inspiration, ninety-nine per cent perspiration», un per cento di ispirazione, 99 per certo di sudore e fatica. E se a dirlo è uno degli inventori più creativi della nostra storia recente, capace di incidere in maniera significative nelle nostre vite, qualche domanda dovremo pur farcela. La verità è che, nonostante tanti studi abbiano provato a indagare questo fenomeno, i risultati sono spesso poco convincenti se non addirittura contrastanti. E questo perché è complicato se non addirittura impossibile definire, in maniera empirica, cosa sia genio e cosa follia. La vera follia vitale della poesia e l’ideologia falsa del manicomio Claudio Paolucci, professore ordinario di Semiotica all’università di Bologna, è direttore di un progetto di interesse nazionale su follia e creatività. «Stiamo lavorando per cercare di decostruire questo tipo di narrazione. Vogliamo far vedere che la creatività è una dimensione normale del lavoro. Che spesso le opere più creative vengono realizzate nei momenti in cui le persone che le realizzano lavorano al massimo delle loro capacità. E questo è evidentemente incompatibile con livelli della malattia mentale che non permettono questo tipo di alta funzionalità». Lo scopo non è certo quello di negare che esistano e siano esistite persone geniali affette da malattie mentali. Piuttosto eliminare il nesso di casualità che le rende geniali perché folli o folli perché troppo geniali. «Vorrei fare due esempi – dice Paolucci – nel film The Beautiful Mind le visioni e le allucinazioni di John Nash, invece di essere un impedimento, sembrano aiutarlo nel trovare soluzioni che lo porteranno al Nobel. Ma noi sappiamo che non è cosi e che anzi, nella fase più acuta della sua schizofrenia, Nash non era in grado di lavorare. Ugualmente nella scena, famosa, di Dustin Hoffman che, in Rain man, conta in maniera super rapida i 246 stuzzicadenti caduti a terra. Nessuna persona con disturbi dello spettro autistico possiede un tale “super potere”. La creatività, piuttosto, è quando nella scena successiva, veniamo a sapere che ogni scatola di stuzzicadenti ne contiene 250 e quattro non sono caduti. Accorgersi di questo particolare significa utilizzare la conoscenza che abbiamo in maniera non banale, cioè in maniera creativa». Eppure è proprio così che lo stereotipo del “genio folle” si perpetua. Rimanendo una costante della nostra romantica, visione del mondo. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Lo stesso Brian Wilson, in fondo, nei momenti più bui del suo cammino è stato costretto a mettersi da parte. E sicuramente peggio è andata a Syd Barrett, mente creativa e geniale dei Pink Floyd, che è stato travolto dei suoi demoni non riuscendo più a produrre nemmeno una nota e lasciando ai posteri solo un’ultima immagine, irriconoscibile, con i capelli rasati a zero, lo sguardo vuoto e l’idea che quel «pazzo diamante», nonostante tutto, potesse «continuare a brillare» (Shine on you crazy diamond). Per Wilson le cose sono andate un po’ diversamente. Lui, a modo suo, ha continuato a brillare. Nell’ostinata volontà di migliorarsi continuamente. Nella competizione irriducibile con i Beatles, ma anche con i Rolling Stones che, proprio durante la registrazione dell’album Between the Buttons e del brano My obsession, lo avevano ospitato in studio. «Un groove incredibile» dirà anni dopo parlando di quella sera e di quella canzone. Persino nel progetto avviato, interrotto e poi completato a distanza di 37 anni, di Smile, il disco che doveva rappresentare il suoi irraggiungibile capolavoro. Forse, alla fine, la vera ossessione di Wilson era proprio questa. Sorridere. [Missing Caption][Missing Credit]