Ho scritto per non impazzire di disperazione». Piero Pelù, 59 anni, tre figlie, un nipotino. Quarant’anni di rock vissuti sempre pericolosamente. Prima da frontman dei Litfiba, gruppo che ha lasciato un segno nel panorama della musica rock italiana ed europea, poi da solista. Ventisette album, sette milioni di copie, una marea di concerti in Italia e nel mondo, “El Diablo” ha affrontato la pandemia, con le sue chiusure e le sue angosce, aggrappandosi alla scrittura. «Sono stati mesi terribili, mi mancava la socialità, poter uscire, programmare la pubblicazione di un disco al quale stavo lavorando da due anni.

Fare concerti, stare tra la gente, saltare sul palco. Toccare, sentire il calore di corpi che vibrano per la musica sparata dagli amplificatori, di occhi che si commuovono per le parole che hai scritto, per le storie che nuotano tra le note e che ti aprono la mente e ti fanno indignare e incazzare. Tutto fermo, tutto bloccato. Il virus ci ha vietato la vita. E allora ho scritto. Ho rimesso insieme i pezzi della mia vita, non per parlare di me, ma per raccontare noi. Quello che siamo stati. Quello che siamo. E per tentare di capire quello che diventeremo».

Nasce così Spacca l’infinito (Giunti editore, 276 pagine, 18 euro), giusto sottotitolo “Il romanzo di una vita”. Perché di vero e proprio romanzo si tratta. Non della autobiografia di un cantante famoso, un personaggio che la gente è abituata a vedere in tv o sui rotocalchi da parrucchiere, ma di un racconto dove l’autore sfrutta pienamente il vantaggio di conoscere bene (forse) il protagonista, e benissimo i vari personaggi che arricchiscono l’intera storia.

Un viaggio dentro la Firenze degli anni Settanta e Ottanta, e nei luoghi del mondo che il ragazzo Pelù sognava da bambino e da irrequieto adolescente, e che da adulto frequenta con avida curiosità. Dalla Francia, agli Stati Uniti, fino a Cuba e all’Asia.

Piero Pelù, cominciamo da uno dei punti forti della tua filosofia di vita: «I diversi, gli inutili, gli strani, gli ultimi, secondo la società dei normali, spesso sono gli unici disposti a darti una mano quando sei nella merda fino al collo».

È così, sapessi quante volte mi sono trovato nella merda e le uniche mani che si sono fatte avanti per tirarmi su sono state quelle degli strani e degli ultimi.

Chi sono? Quelli che non hanno nulla da perdere, che non fanno calcoli, che non si aggrappano, timorosi, ai piccoli o grandi privilegi conquistati. Gli irrequieti.

Fai parte della categoria?

Di coloro che a un certo punto della vita rinunciano alle certezze e ai privilegi acquisiti certamente sì. Lasciai i Litfiba nel 1999 perché non ci capivamo più. Era come quegli amori tossici che non fanno bene.

I dischi andavano forte e all’epoca il gruppo vendeva un milione di copie. Il mio fu un azzardo, ricominciai da zero e con numeri diversi, ma alla fine ce l’ho fatta.

Credo di aver raccontato qualcosa. In quei momenti di difficoltà ho capito che potevo fidarmi di persone che mai avrei immaginato avessero potuto darmi una mano, un consiglio, qualche forma di incoraggiamento. Più vado avanti più questa cosa diventa una certezza, perché per fortuna la realtà vera è molto legata al quotidiano, al marciapiede, e non al virtuale.

Vero, ma quanto contano oggi gli ultimi, i diversi, gli strani?

Stiamo vivendo questa grande fase di livellamento, per dirla con il principe de Curtis, verso il basso. La pandemia ha accentuato il disagio sociale diffuso. Solo poche élite si stanno arricchendo, consolidando le loro posizioni di privilegio. Il ceto medio scivola sempre più in basso. Si usa dire che l’ascensore sociale si è bloccato, io credo invece che da quell’ascensore in tanti, troppi, stanno precipitando nella tromba delle scale. Tutto ciò è difficile da accettare. Penso al mio mondo, la musica.

Da mesi non ci sono concerti, maestranze di valore, fonici, attrezzisti, organizzatori, assistenti, non lavorano. Molti sono costretti a ricorrere agli aiuti della Caritas. Non accetto che il ministero della Cultura distribuisca milioni a pioggia agli enti e non offra alcun tipo di aiuto alle tante professionalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Dove i più fortunati, una minoranza, sono in cassa integrazione. La realtà è che in questo paese ci sono gli invisibili e i dimenticati. Sono preoccupato perché quando la disparità sociale arriva a questi livelli, non si sa dove rischia di sfociare.

Non auspico rivoluzioni con la ghigliottina, ovviamente, ma vedo un’Italia piegata, immobile, diversa da realtà come la Francia dove i movimenti organizzati producono aggregazione e ottengono risultati. Non respiro un’aria da anni Settanta-Ottanta, anni di battaglie e di conquiste di civiltà, quelle bellamente smantellate nei decenni scorsi. Anni fa volevo fondare un sindacato dei musicisti. Siamo soli, senza rappresentanza. Hanno vinto gli egoismi, l’individualismo. Forse qualcosa di simile si riuscirà a fare per la musica classica. Gianna (Fratta, sua moglie. Pianista e affermata direttrice d’orchestra internazionale, ndr) ci sta lavorando.

Un giudizio sul governo Draghi e la grande maggioranza del tutti dentro.

Non ho un giudizio. Non ho la minima idea. Mi piace il ministero per la Transizione ecologica, spero si faccia qualcosa e che l’Italia non sia più il fanalino di coda dell’Europa in materia di tutela dell’ambiente. Per il resto aspetto di vedere.

È una cosa talmente anomala che si fa fatica a dare giudizi e fare previsioni. Diciamo che ho fiducia nell’intelligenza delle persone, in quella dei politici di oggi un po’ meno.

Nel libro racconti il passato per parlare dell’oggi.

Nel passaggio sulla famiglia, luogo di eterni conflitti, sei amorevole, ma anche crudele verso il dottor Giò, tuo padre, e tua madre, la signora Cristina.

Racconti della tua scelta di lasciare l’università e di dedicarti alla musica rock, e aggiungi questa frase riferita ai tuoi: «Loro non sapevano niente del mondo al di fuori delle rassicuranti mura di casa…». Pura crudeltà.

I miei appartengono a una generazione che ha sofferto la guerra e il duro dopoguerra. Hanno faticato per ricostruire le loro certezze, avevano disegnato un percorso per i figli. Il mio doveva essere questo: classico, giurisprudenza, un buon lavoro sicuro.

Ma io volevo andare all’artistico, e poi al Dams dove c’era Umberto Eco, studiare musica e teatro. Nel rapporto con i figli, da genitore, sono diverso. Da prodotto auto-costruito quale sono, da uomo che ha girato il mondo, sono dotato di una maggiore elasticità.

Ho tre figlie, a tutte dico di studiare, se hanno sogni, passioni, talenti da esplorare, dico va bene. Ma studiate. Nella vita niente è facile.

Alla fine, tuo padre accetta il tuo voler essere un cantante rock.

Si rassegna sfinito. Ma sempre invitandomi a studiare, approfondire, dare tutto me stesso.

E io questo ha fatto. Ho passato nottate ad ascoltare Bennato, Jannacci, i Beatles, i gruppi più avanzati a livello internazionale degli anni Ottanta-Novanta. Ho studiato musica, ho fatto corsi d

i teatro. Ho letto.

Perché «la dea musica – scrivi – esigeva cuore, studio, testa, follia e tempo, tantissimo tempo: la vita intera».

Aggiungendo che anche nei momenti di delusione non si deve mollare.

Il messaggio che mi piace dare, soprattutto ai ragazzi di oggi che stanno vivendo momenti terribili, è che quando hai capito qual è la tua passione, devi insistere, essere perseverante anche quando non raccatti nulla.

La vita non ti concede scorciatoie, soprattutto nel mondo della musica e dell’arte. Un mondo precario. Io stesso mi sento un precario, non ho nessuna certezza.

Oggi, però, basta un talent, una comparsata in tv per illudersi di aver raggiunto il successo.

Illusioni ottiche, se fai una canzone di successo e non studi, non sai un tubo, sei un ignorante, sei destinato a soccombere.

Lo studio, la conoscenza di quello che è stato scritto e cantato prima di te, ti fa capire che sei un granello di sabbia, uno che ha ancora tanto da esplorare e imparare.

 

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