Da qualche anno mi sono dato una specie di ferrea dieta digitale – un’ora al giorno per ognuno dei social principali, con l’idea di scriverne per testate, newsletter, un libro. Lo ritengo un esercizio fondamentale, per chi come me ha l’ambizione un po’ ardita di orientarsi nel mondo dell’intrattenimento online. A volte, però, anche una piccola pena quando i contenuti offerti finiscono col somigliarsi gli uni con gli altri.

Così mi capita spesso, negli ultimi tempi, di imbattermi in format video confezionati sotto un genere ben codificato: di solito ci sono due o tre conduttori dietro a un tavolone muniti di microfono professionale. In mezzo, un ospite più o meno famoso che non ti aspetti. Dietro le loro spalle una luce al neon, appiccicata al muro, a riprodurre il nome dello show.

Li trovi su YouTube a chiacchierare per più di un’ora, inquadrati da telecamere che ne rincorrono i volti da una parte all’altra dello studio. Su TikTok, poi, ne vedi enucleati alcuni passaggi sotto forma di clip coi “momenti più caldi”, le dichiarazioni più divisive.

Sono alcuni dei podcast italiani che circolano di più in rete, e sono grosso modo simili: si domanda all’ospite del proprio passato, arrivando a chiedergli i migliori aneddoti biografici. Si rifanno più o meno a certi modelli americani, e ci ritrovi spesso gli stessi ospiti – ambitissimi Vittorio Feltri, Giuseppe Cruciani e Fabrizio Corona, di recente.

Sono troppi

E non si tratta dei più visti o dei più ascoltati, che restano ad oggi comunque legati ai mondi del crime, delle news, della scienza. Sono – invece – quelli a base di interviste, pieni di domande e ospiti inattesi, gli esemplari che meglio sostanziano l’immaginario dei podcast al 2023. Quelli che riproducono uno standard riconoscibile e, soprattutto, riescono a farlo circolare meglio sui social. Che vanno a riempire l’offerta.

«Diciamoci una cosa, sui podcast» spiegava la giornalista Kate Knibbs in un pezzo apparso sulla versione americana di Wired qualche settimana fa: «Sono troppi». Secondo i calcoli di Podcast Index, un database prezioso per chiunque voglia prendersi la briga di esaminarli ed estrarre dati significativi, il totale ammonterebbe addirittura a più di quattro milioni per una media di centomila episodi in tre giorni.

Un «profluvio di contenuti audio talmente gigantesco da non lasciarti mai senza opzioni», continuava Knibbs: quell’interminabile tappetone rumoroso fatto a volte di chiacchiere preziose e nuove nozioni, a volte di informazioni non richieste, che rischia di ripetersi e di suonare quasi meccanico.

Artificiali

Così, in un mercato talmente ricco e fatto di modelli ben precisi e riconoscibili, non stupisce che qualcuno abbia provato a reiterare lo stile di questi podcast, a renderli ancora più “meccanici”. Ad accoppiarli, in un certo senso, a un segmento vibrante e iper-contemporaneo come quello delle intelligenze artificiali.

Già largamente sfruttate nel mondo del lavoro e della ricerca – tanto da valere accordi per miliardi di dollari solo nel 2022 – da qualche mese in rete ci siamo abituati a fare i conti le Ai e con ciò che con esse, attraverso dei software di comando e il machine learning, si può generare.

Abbiamo scambiato l’opera di un muratore di Chicago per una foto del papa in piumino Balenciaga. Abbiamo visto dei software creare dal nulla dei prototipi di spot televisivi, per dei marchi di birra d’invenzione. Abbiamo giocato con ChatGpt chiedendogli di comporre poesie o fare ricerche.

Non può stupire, dunque, se in questa specie di corsa all’oro contenutistica guidata dalle Ai, abbiano cominciato a circolare podcast generati dalle intelligenze artificiali: un misto tra esercizi di stile ed esperimenti in cui si aggregano notizie. Utili fonti di informazioni, e provocazioni contenutistiche. 

Gli esempi

I casi non sono pochi: c’è per esempio l’inglese Synthetic Stories, racconti in cui tutto, dallo script alle voci fino al sound design, è Ai generated – una specie di dimostrazione pratica dello spettro di potenzialità ancora inespresse. C’è, ancora, Hacker News Recap e i suoi aggiornamenti sul mondo dell’informatica: un caso di successo nel settore, che ha persino scalato le classifiche di Apple Podcast fino ad arrivare al secondo posto in Lettonia.

E c’è The Joe Rogan Ai Experience, forse il più famoso di tutti – o quanto meno, tra i primi ad aver aperto lo squarcio su questo mondo, con le sue puntate e i suoi numeri.

Prodotto da un ragazzo australiano che si fa chiamare Hugo e che preferisce non rivelare la propria identità, The Joe Rogan AI Experience è una sorta di versione simulata, e a tratti spaventosamente verosimile, del quasi omonimo show di Joe Rogan – controverso comico statunitense, e conduttore di uno dei podcast più famosi al mondo. Forse il più famoso.

«Sono sempre stato attratto alle nuove tecnologie» mi spiega Hugo durante un’intervista in cui mi racconta di lavorare nel settore degli effetti visivi, e che da qualche tempo si è messo in testa di mostrare al mondo a che punto siamo con le Ai.

«Vedendo crescere questo settore, ho pensato di provare a far qualcosa per imparare a usarne la tecnologia. Ho visto un video in cui si parlava di uno strumento in grado di clonare le voci, e da lì è nata l’idea. Poi ho fatto un po’ di ricerca, e una volta chiuso il primo episodio ho deciso di aprire un canale su YouTube».

L’altro Joe Rogan

The Joe Rogan Experience, l’originale, è il podcast che da anni è al centro di un vasto dibattito: da una parte per il suo tono volutamente politically incorrect e per le sue posizioni divisive, a volte persino estreme – non ultimo, un certo scetticismo sulla pericolosità del Covid-19. Dall’altra, dal punto di vista industriale, per aver portato Spotify a offrirgli – secondo il New York Times – fino a 200 milioni di dollari per accaparrarsi l’esclusiva del format fino al 2023. 

Provando a fare la tara ad alcuni dei suoi inaccettabili eccessi, Joe Rogan è – che lo si voglia o meno – forse il personaggio che in questo mondo ha lasciato il marchio più indelebile, producendo decine, centinaia di emuli in tutto il mondo che ormai vedono nel podcatsing, e nella possibilità di urlare in un microfono tesi ardite e opinioni scorrette, un modo nuovo per trovare visibilità e occasioni per monetizzare. 

Stimolando, quasi ineluttabilmente, la nascita di un “gemello diverso” nell’universo parallelo delle intelligenze artificiali.

«Ho scelto di lavorare sul podcast di Joe Rogan perché sono fan», mi spiega candidamente Hugo. «So come parla, ho ascoltato migliaia di ore del suo podcast: è il numero uno, e usare la sua voce per me aveva tutto il senso del mondo».

Un mondo alternativo

L’idea originaria era quella di «creare una sorta di realtà alternativa in cui Rogan intervista ospiti che di certo non passeranno mai dal suo show, o che non lo hanno ancora fatto». O addirittura, dice, «che ormai sono defunti… Ma devo lavorarci su».

Il risultato è che, mentre scrivo, il suo canale YouTube conta circa un milione e mezzo di visualizzazioni in totale e una manciata di interviste su qualsiasi tema, prendendo in prestito la voce di personaggi arcinoti o controversi come l’ex kickboxer e influencer Andrew Tate, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il rapper Drake.

«Il processo è abbastanza semplice, ma molto dispendioso in termini di tempo – anche se preferisco non entrare troppo nei dettagli del mio lavoro, come potrai comprendere», specifica. 

I testi vengono prima generati su ChatGpt, «viene poi clonata la voce degli ospiti», e dunque sceneggiatura e parlato finiscono per esser assemblati in un software apposito. «Peraltro sto cercando di sviluppare strumenti che mi aiutino a snellire il processo, così da aumentare il numero di video pubblicati in un mese».

Un senso di irrealtà

Prima di contattare Hugo, ho provato ad ascoltare qualche ora di questo podcast ricavandone più dubbi che risposte. E sebbene sia difficile scambiarlo per qualcosa di effettivamente umano, nel suo farsi inevitabilmente ripetitivo in alcuni passaggi, il sapore della chiacchierata ricorda vagamente l’originale, soprattutto per il timbro delle voci e il ritmo dell’intervista.

Il dibattito – tuttavia –  in genere si avviluppa attorno ai temi in modo chiaramente innaturale, irreale, e per interminabili manciate di minuti: come quando si sentono gli interlocutori convenire lungamente sul fatto che “umano è meglio”, o che il “progresso non è mai una linea retta”.

Eppure, nella loro imprecisione, gli scambi di battute tra i personaggi creati per The Joe Rogan AI Experience continuano a restare affascinanti – e non solo per il risultato finale, davvero credibile solo a un ascolto disattento. 

Verso il futuro

Forse è proprio questa fallibilità a rendere l’intero progetto seducente: come se l'avvicinarsi a livelli quasi umani di conversazione, ma mai in grado emularli davvero, ci facesse sentire al riparo dall’invasione delle macchine, almeno per un’altra giornata. Come godere della vertigine, di un’idea di futuro affascinante, ma non per questo priva di angosce – tanto da turbare lo stesso Rogan, come confessato pubblicamente. 

«Penso che le Ai riusciranno, in breve tempo, a raggiungere il cento percento dell’emulazione di tutto ciò che l’uomo può fare» precisa Hugo sul tema. «Sono certo che tutto ciò che stiamo facendo adesso, con le intelligenze artificiali e i deep fake, ci porterà verso un mondo in cui le persone non sapranno più distinguere il vero dal falso».

Gli chiedo quasi ingenuamente se questa prospettiva non lo turbi, in qualche maniera, ma lui è impenetrabile. Cosciente dei rischi ma fermo, evitando catastrofismi. «Noi, come società, avremo il dovere di imparare a confrontarci con questo panorama, per riuscire poi a conviverci e usarlo per il bene dell’umanità. Non manca molto».

«Già adesso, se ci pensi, siamo solo all’inizio», conclude. «E se è stupefacente quello che riusciamo a fare oggi, allora pensa al mondo tra cinque anni».

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