Forse soltanto quella sera si chiamò Robert Allen Zimmerman. Erano le 21:05 del 24 maggio del 1941 quando nacque. Più precisamente: all’ospedale di Saint Mary di Duluth, nello stato del Minnesota, sulla scogliera della riva occidentale del lago Superiore. Sei anni dopo la sua famiglia si trasferì a Hibbing, una città mineraria, al 2425 della Seventh Avenue. La comunità ebraica lì è talmente piccola che non c’è neanche un rabbino. Il primo concerto, dopo un’applaudita esibizione in onore della nonna, fu al matrimonio della zia: riluttante, il piccolo Bob rifiutò anche i soldi offerti da qualche parente, ma poi accettò di cantare, a patto che tutti facessero silenzio.

La prima fidanzatina ufficiale si chiamava Echo Helstrom, ed era di origini svedesi. Quando Bob la baciò lei rimase di stucco: «Pensavo fossimo solo amici. Non avrei mai immaginato che fosse interessato a me come ragazza».

Festeggiando gli ottant’anni di Bob Dylan andrebbe tirata in ballo l’enantiosemia, quella caratteristica di una parola di avere due significati opposti, e soprattutto l’esempio più affascinante di enantiosemia: “storia”. Storia che, come sappiamo, può significare sia racconto veridico sia racconto menzognero. Direttamente dalla sua bocca e dalla bocca di gran parte della popolazione mondiale, dai primi anni Sessanta a oggi, sono uscite milioni di storie sulla vita e sull’opera di Dylan. Racconti veridici e menzogne palesi. Per il suo ultimo compleanno ho voluto raccogliere una serie di queste storie, tutte verità rigorosamente accreditate e testimoniate ma non per questo realmente accadute. Aneddoti minori, piccole panzane, sfiziosità che erroneamente si crederebbero rinunciabili. Di Dylan bisogna sapere tutto e credere a tutto, senza eccezioni. Altrimenti si è fan solo a metà.

Le storie

Nel 1961 arrivò a New York con la città sommersa dalla neve. Registrò il primo album discografico, uscito nel febbraio del 1962, in due sedute di studio. Nella canzone I shall be free immaginò che il presidente Kennedy lo chiamasse al telefono per chiedergli cosa servisse all’America per crescere ancora. Lui gli rispose: Brigitte Bardot, Anita Ekberg, Sofia Loren, così, assicurò al presidente, «Country’ll grow!», il paese crescerà.

Il 5 gennaio del 1963 capitò per la prima volta in Italia, a Roma per suonare al Folkstudio. A proposito del suo nome avrebbe detto: «Ho fatto più io per Dylan Thomas di quanto lui abbia fatto per me», dato che una delle voci più affidabili è quella che sostiene che avesse scelto il suo nom de plume ispirandosi al poeta inglese. A Londra nel 1965 si presentò davanti ai giornalisti con una grande lampadina tra le mani. Oltre all’immancabile sigaretta a ingiallirgli le unghie. «Cosa consiglia ai giovani?», gli domandano. «Siate sempre lucidi e portatevi dietro una lampadina». Soltanto una cosa lo annoia più di una conferenza stampa e quella cosa è andare a pescare.

Uno dei suoi libri preferiti è Gimpel l’idiota di Isaac Bashevis Singer.

Disse a proposito di Like a Rolling Stone: «Alla fine non era odio, era un dire a qualcuno qualcosa che non sapeva, dirgli che era fortunato. Vendetta, è una parola migliore. (…) Era come nuotare nella lava».

Al Newport Folk Festival salì sul palco con la chitarra elettrica, una camicia azzurra a grandi pois bianchi e un paio di occhiali da sole. Sembrò a tutti che prima di lui nessuno avesse mai indossato gli occhiali da sole.

Andy Warhol gli donò una serigrafia di Elvis. A Bob, però, proprio non piaceva: prima l’appese al contrario, poi la chiuse in un armadio e infine la diede al suo agente, Albert Grossman, in cambio di un divano.

Il 29 luglio del 1966 i giornali della sera riportarono la notizia del suo incidente in moto, sulla Triumph 55, delle vertebre rotte, delle ferite al volto e alla testa. Il vicino di casa disse che Bob ricorse a una cura con gli ultrasuoni. Diversi amici ricordano che negli anni successivi nuotava spesso per alleviare i dolori della schiena. Ogni storia è fraudolenta. Ogni truffa è vera se ci crediamo tutti.

Sulla fama dichiarò: «Pensate a Napoleone. Napoleone aveva conquistato l’Europa, e nessuno sapeva neppure che aspetto avesse; di questi tempi, la gente diventa famosa troppo in fretta, e questo conduce unicamente all’immediata distruzione dell’individuo. Vi è molta verità nell’affermare che la fama sia nient’altro che una maledizione».

Quando acquistò la grande villa a Woodstock la sua privacy ne risentì: un giorno trovò una famiglia di hippy a mollo nella sua piscina e un altro giorno scoprì una coppia nel suo letto matrimoniale. Per stare più tranquillo se ne andò, allora, a Ohayo Mountain Road dove comprò anche sedici ettari di terra sull’Hudson: l’unica intrusione che ricevette lì fu quella dell’asino della vicina che di tanto in tanto entrava nella sua cucina in cerca di cibo.

Il giorno che compì trent’anni era in Israele, al Muro del Pianto. Il giorno del suo trentaquattresimo compleanno era in Francia, invitato a una festa gitana. Dove starà festeggiando l’ottantesimo compleanno?

Il primo concerto in Italia fu all’Arena di Verona, nel 1984. Nella conferenza stampa, con in testa un cappello di paglia, chiese ai giornalisti se nei paraggi ci fosse Sofia Loren.

È sua la canzone nei titoli di testa di Il grande Lebowsky come è sua la canzone nei titoli di coda di Easy Rider.

Il secondo matrimonio, nel 1986, con la corista Carolyn Dennis avvenne nel segreto e nel segreto quasi rimane. La maschera sempre in vetrina, esibita, ostentata; il volto sempre nascosto dallo sguardo degli altri.

Alla marcia su Washington di Martin Luter King suonò tre canzoni. Ventitré anni dopo, al concerto in omaggio di Martin Luter King, nel 1986, dietro le quinte, con la camicia di flanella, gli stivali da lavoro, «Le unghie sporche e i capelli non lavati da tre giorni», così almeno giurò una testimone – dovette subire il corteggiamento di Elizabeth Taylor.

A settembre del 1997, invitato a suonare al Congresso eucaristico mondiale di Bologna, quasi cadde salendo i gradini per raggiungere la mano del papa. Qualche tempo dopo suonò una polka in un episodio della sit-com Dharma & Greg. Nel 2004 a Venezia girò uno spot pubblicitario della marca di biancheria femminile Victoria’s Secret insieme alla modella brasiliana Adriana Lima: lui con un cappello nero e lei con le ali bianche. Nello stesso anno si accordò con un produttore marchigiano per un nuovo marchio vinicolo: tre quarti Montepulciano, un quarto Merlot. The Wines They Are a-Changin’, titolarono alcuni giornali inglesi.

E per finire, due indubitabili verità, che guarda un po’ il caso non riguardano personalmente Dylan: cosa dire della gentilezza con cui Joan Baez deve ogni volta deludere i partecipanti di questa o quella manifestazione pacifista o progressista dicendo che no, Dylan non verrà, non verrà neanche questa volta; o come misurare il cuore di Patti Smith che andò a ritirargli il Nobel e per l’emozione si scordò persino le parole di A Hard Rain’s A-gonna fall?

Si è anche già scritto l’epitaffio, ormai cinquantacinque anni fa: «Qui giace Bob Dylan / Assassinato / Alle spalle / Da carne tremante / Che dopo essere stata respinta da Lazzaro / Gli balzò addosso / Per solitudine / Ma scoprì sbalordita / Che era già diventato un tramvai e / Questa fu esattamente la fine / Di Bob Dylan». Anche allora per nostra fortuna mentiva. Soltanto una volta in tutta la sua vita fu sincero. Era il 1965 ed era in tournée in Inghilterra. Poco prima di salire su uno dei migliaia di palchi su cui si sarebbe esibito per tutta la sua carriera, già con la chitarra e l’armonica al collo, disse: «Sono contento di non essere me». È stata l’unica occasione di sincerità della sua vita. Auguri, Bob. Promettimi che non dirai mai più la verità.

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