Se assumiamo che il cibo sia un modo di interrogare il mondo, tocca andare oltre una visione che lo riduce a quello che ci serve per nutrirci, e che consumiamo per soddisfare la necessità di energia. Se fosse solo così, vivremmo in un eterno giorno della marmotta: ci sveglieremmo, apriremmo il frigo e mangeremmo quello che abbiamo davanti, per fame e raziocinio.

La memoria

Il cibo però si lega alla memoria, ai ragionamenti, alle scelte: ci sono periodi, o disturbi, in cui i pasti sono al centro di ogni pensiero, per poi diventare oggetto di valutazioni, e protagonisti di avvenimenti. È il risultato del rapporto più che solido tra il tempo e i pasti: il cibo va oltre la necessità e si tramuta in sensazioni, si snoda tra arterie e ricordi per abbracciare la sfera delle emozioni.

Chiunque bazzichi il cibo oltre una meccanica suddivisione dei pasti, e tanto più se lo fa da un corpo femminile, ha chiari diversi concetti: restrizione alimentare, controllo, abbuffata emotiva. Mangiare come conforto, per distrarsi, come antidoto alla noia e alla rabbia: il cibo viene chiamato in causa per gestire i sentimenti, perché sa intorpidire, rimestare. È più immediato mangiare una busta di patatine che andare alla fonte del nervoso. E quindi: possiamo interrogare la nostra fame, per capire come ci sentiamo.

Il cibo sa rispondere anche a un’altra domanda: ma tu, cosa ricordi? Prendiamo le pesche, che magari tu mangi anche a febbraio, ma credimi, a giugno sono spettacolari. E quando le mangi per due mesi all’anno, quei due mesi cominci ad aspettarli: immagini la dolcezza, il colore delle pesche, di mangiarle da sole, o in insalata. Dopo averle aspettate, arrivano, e creano ricordi: le pesche sciroppate di tua nonna, insieme alla panna montata fuori dalla terrazza, il cesto di pesche che ti hanno portato in ospedale.

Le stagioni del cibo, in sintesi, formano qualcosa che possiamo chiamare «memoria prospettica»: ti proiettano in avanti, col pensiero, dopo che certi alimenti si sono legati al passato. Un po’ come i primi tramonti di giugno, che ti fanno amare più di ogni altra cosa quando giugno arriva. Il cibo è legato al tempo, e al quotidiano: mangiamo, se siamo persone fortunate, tutti i giorni, e tre volte al giorno. Questo crea abitudini: la colazione con i Pan di Stelle quando avevo 8 anni; gli overnight oats quando ho cambiato casa; il caffè, ogni mattina.

Storie e momenti

Le abitudini creano fermi immagine, e durano anni, se non per sempre. Il cibo condensa le nostre biografie, e lo fa all’incrocio tra memoria sensoriale e identità culturale, gusto e abitudini. Il cibo conosce meglio di noi il momento in cui ci troviamo: ci colloca nel tempo.

Le domande sul cibo possono essere centinaia, e qui ne vedremo solo qualcuna. Quando studiamo ingredienti, piatti e ricette, possiamo scegliere di adottare un approccio interdisciplinare, e analizzare la dispensa, come l’orto, sotto una lente che cambia a seconda della nostra curiosità. Il cibo contiene storie: quando costruiamo la nostra dispensa da soli o con qualcuno, quegli acquisti si intrecciano con le scienze psicologiche e sociali. Chi produce il cibo e lo immette sul mercato ci parla di economia; chi ne scrive, di letteratura; chi lo cucina, infine, di scienze culinarie.

Le correlazioni sembrano inevitabili, eppure quando si scrive di cibo, ci si ferma spesso a una sola dimensione. Quante persone pensano ancora al cibo in chiave solo nostalgica o edonistica, e si fermano lì. Magari dipende dal poco credito che diamo ai nostri sensi, o alle scienze molli: eppure i dati esistono, e la gastronomia è una scienza. Il cibo. Quel qualcosa che rende lo studio e l’esperienza una creazione: di ricordi, e di memoria corporea.

Non so tu, ma quando grattugio la buccia di limone nel soffritto, il mio corpo è attraversato da un friccicore. Quando mangio a cucchiaiate la pastina all’uovo nel brodo vegetale e tiro su la crosta di parmigiano resa morbida dal calore, mi commuovo. Il corpo sa, il corpo ricorda e prevede. E questo non è uno scherzo della pancia, ma un modo per radicare ciò che mangiamo a come ci consoliamo, e amiamo.

Gli orari

E ancora, ti faccio una domanda: a che ora mangi? Le risposte ti permettono di capire molto di chi ti sta davanti.

Io, che sono nata in provincia di Salerno e vivo a Torino, pranzo verso le 12.30 e ceno tra le 19 e le 20. Quando torno dai miei che sono rimasti in Campania e propongo di andare a mangiare una pizza verso le sette di sera, mi guardano come se fossi un’aliena. Un mio amico, in viaggio in Svezia, cenava verso le 17.30-18. In Spagna, farlo verso le 22 è normale. Contano la luce e la temperatura, e più il sole tramonta presto, più i nostri orari sono conservativi.

L’influenza geografica si mescola con ragioni storiche oltre che culturali: tra il Settecento e l’Ottocento l’aristocrazia modifica gli orari del pranzo e della cena. Tende a spostare il pranzo sempre più avanti, a introdurre una colazione corposa, e a far scomparire quasi la cena: vuole differenziarsi dal popolo e dalla borghesia, e lo fa col cibo.

Magari non fai parte dell’aristocrazia, ma sei o sei stata giovane: una delle prime conquiste del vivere fuoricasa è modificare gli orari dei pasti. La colazione diventa pranzo e il pranzo diventa merenda. Non ci sono più tovaglie, e nemmeno un piatto uguale all’altro. Mangiamo peggio, siamo più libere. Ci affermiamo attraverso questi orari, che si piegano di nuovo quando cominciamo a lavorare: la colazione delle 6.44 prima del treno, la pausa pranzo alle 13.02 dopo aver timbrato il cartellino, l’aperitivo alle 19.18 per dimenticare i pessimi capi.

Il mangiare è la pratica quotidiana che mette in relazione la persona col mondo, perché fornisce dei riferimenti di spazio e di tempo.


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