In una foto scattata in una cittadina nel Nord Ovest di Gaza City, diffusa verso la fine di giugno dal fotogiornalista Mohamed Al Masri, c’è un uomo disteso su un pallet, ferito a morte. Intorno a lui, centinaia di persone si muovono trasportando sulle loro spalle sacchi di farina. Lo guardano con sconcerto e dolore, come se dovesse essere quello il soggetto che merita attenzione. Eppure, nello stesso momento, sono distratti e si guardano intorno con circospezione cercando una via di fuga, temendo di essere uccisi anche loro da un momento all’altro o di perdere l’unico pasto guadagnato.

Nessuno avrebbe mai pensato che la serie coreana Squid Game potesse diventare realtà. La ricerca di cibo a Gaza è diventata questo: si conquista il cibo ma si viene uccisi. Eppure l’unico modo per poter mangiare è accettare questo rischio, perché il sistema agroalimentare della regione è collassato. Secondo un’indagine geospaziale condotta dalla Fao, l’80 per cento dei terreni coltivabili di Gaza è stato danneggiato, mentre il 77,8 per cento di essi è inaccessibile agli agricoltori. Ad oggi i terreni coltivabili sono solo il 4,6 per cento e l’82,8 per cento dei pozzi agricoli è stato compromesso.

Nonostante Israele possegga una dotazione bellica tra le più importanti al mondo: carri armati, aerei da combattimento F-35, F-15 e F-16, missili balistici e droni – oltre al sistema di difesa antimissile Iron Dome- la fame si sta rivelando una delle armi più efficaci di questa guerra. L’agricoltura ha sempre avuto un ruolo speciale nei conflitti, in particolare in quello israelo-palestinese, come arma di attacco e di difesa: sottrarre e distruggere la terra o rimpiazzare coltivazioni locali per colonizzare; proteggere la terra o i semi autoctoni per tutelare il diritto a esistere.

Il controllo israeliano sulle terre palestinesi passa infatti anche dalla distruzione dei raccolti. Negli anni, i coloni israeliani, hanno infatti liberato i cinghiali nelle campagne palestinesi, per cancellare i raccolti e costringere alla partenza le famiglie. Parallelamente, la comunità palestinese ha trovato gli anticorpi per resistere e per impedire che la propria identità venisse cancellata: le varietà locali di semi, ognuna portatrice di una storia.

Vivien Sansour, artista e attivista palestinese, che ha raccontato la ricchezza culturale dei sistemi agricoli in performance creative in giro per il mondo, ha dato vita nel 2016 alla Biblioteca dei semi dell’Eredità palestinese, nella città di Battir, poco distante da Betlemme: non un luogo di conservazione, come accade per le Banche dei semi sparse per il mondo, ma un luogo di scambio, perché è proprio lo scambio dei semi che ha permesso alle comunità agricole di attraversare la storia e arrivare fino ad oggi. Ma la guerra è una minaccia anche al suo progetto.

Qui, in quella che era famosa per essere una “terra fertile”, anche le piante autoctone sono state sostituite con varietà portate dall’estero dai coloni israeliani. Gli uliveti, alberi tipici della Palestina, in alcune aree sono stati recisi e rimpiazzati con pini europei, quasi a voler ridisegnare il paesaggio ma anche provare a cambiare il seme del popolo che lo abita. Ironia della sorte, i pini, che non resistono alle alte temperature della Palestina, a maggio hanno preso fuoco, causando vasti incendi.

Utilizzare il cibo per annientare è quanto di più lontano si possa concepire in un’epoca in cui siamo tartassati da reel su ogni tipo di cibo: come prepararlo, come sceglierlo, come farne a meno con suggerimenti di diete e valori nutrizionali. La distopia del nostro tempo si misura anche così.


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