Ci sono scrittori la cui opera è intrecciata alla loro biografia, scrittori che sono prima personaggi che autori: da Lord Byron ad Arthur Rimbaud, da Franz Kafka a Jean Genet, da Fernando Pessoa a Yukio Mishima.

Poeti maledetti o geni sregolati, più citati che letti, essi offrono al canone letterario la sua quota di aneddoti bizzarri, scandalosi, talvolta orribili. William Burroughs è uno di questi: non soltanto i suoi libri parlano della sua vita, dal pulp di Junkie alle visioni del Pasto nudo, ma le tracce stesse della sua esistenza compongono un grande romanzo sui bassifondi della cultura americana del secondo Novecento.

Lo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la pubblicazione per Adelphi del suo epistolario, Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973, resoconto di una vita vissuta come un esperimento artistico. Con qualche vittima collaterale.

Scrittore e omicida

Chiedi chi era Burroughs e la prima cosa che ti verrà detta è che fu uno scrittore di culto, noto per il suo mix di sperimentazione letteraria, droga, paranoia, pistole, altra droga. La seconda cosa, immancabilmente, è che nel settembre 1951 a Città del Messico sparò a sua moglie mentre giocavano a Guglielmo Tell. 

Oggi lo definiremmo femminicidio, eppure il fatto non ha mai compromesso la sua reputazione. Anzi. L’omicidio colposo della poetessa Joan Vollmer è la pietra angolare del mito burroughsiano, come Ozzy Osbourne col suo pipistrello vivo divorato a morsi.

Basta cercare in rete delle foto dello scrittore, magari aggiungendo “gun”, “rifle” o “shooting”: troverete decine e decine di pose, realizzate nell’arco di mezzo secolo dopo la morte di Vollmer, di Burroughs che punta l’arma in camera, Burroughs che spara a oggetti, Burroughs a caccia…

Interminabili rievocazioni di quel crimine impunito, inclusi vari video al poligono di tiro. Per non parlare della serie di “shotgun art” del 1982, dipinti ottenuti sparando sulla tela e sulla vernice, con titoli evocativi come Screaming Ghost. Il fantasma di Joan?

Per mezzo secolo, l’incidente messicano è stato considerato come qualcosa a metà tra un happening e una barzelletta. William, figlio di una famiglia facoltosa, se l’era cavata ingaggiando il miglior avvocato messicano e abbandonando il paese alla prima occasione. Burroughs padre aveva già tolto le castagne dal fuoco al figlio nel 1944, pagandogli la cauzione dopo l’arresto per complicità in un altro omicidio.

La parte maledetta

Qualche anno più tardi, William avrebbe scritto che proprio grazie alla morte di Joan era diventato scrittore. «Shoot the bitch and write a book. That’s what I did». Dimenticava di menzionare l’ingente patrimonio dei Burroughs — proprietari della più importante fabbrica mondiale di calcolatrici — e l’evidente disinteresse dei giudici messicani, dell’opinione pubblica americana e della comunità letteraria per il destino di una tossica di ventotto anni ammazzata da un rampollo, per quanto tralignato, del più puro capitalismo.

Così nascevano certe reputazioni artistiche venti, cinquanta, o cento anni fa: bisognava dimostrare di essere fuori dagli schemi, matti e pazzinculo, dei Raskolnikov al di sopra della morale comune, esploratori della parte maledetta, per sperare di entrare nella hall of fame della controcultura.

E accidenti se Burroughs lo era, fuori dagli schemi, come mostra bene il suo epistolario: non soltanto eroinomane, spacciatore e adescatore di ragazzi minorenni, con una predilezione per il turismo sessuale nei paesi poveri, ma anche cospirazionista, razzista, misogino, difensore della liberalizzazione delle armi… Un suo amante ha colpito un’amica facendole perdere due denti? «Tanto erano sul punto di cadere».

È proprio vero che il passato è una terra straniera: lì fanno le cose diversamente. Basti pensare al destino assai diverso del cantante Bertrand Cantat, leader del gruppo francese Noir Désir, condannato per l’omicidio di sua moglie Marie Trintignant nel 2003 e da allora comprensibilmente marginalizzato nello spazio pubblico.

Al contrario Burroughs ha accumulato gli attestati di stima, a partire dall’apparizione sulla copertina di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles nel 1967. All’apice della sua fama, nel 1994, è finito a fare il testimonial per la Nike: simbolo di un anticonformismo pop ormai del tutto masticato e digerito, punta di diamante del soft power controculturale americano. Si è così realizzata la sua più terribile paura: «Dio mi protegga dal diventare un vecchio saggio rispettato».

La consacrazione

Dopo un decennio di vita randagia, e grazie anche al successo dell’amico Jack Kerouac, i beatnik — un pugno di ragazzi di famiglie più o meno borghesi sedotti dai bassifondi della società e interessati a rifondare con le loro forze i valori estetici, culturali, morali — erano riusciti a costituirsi come potente rete di legittimazione e a dettare la linea della nuova cultura americana di fronte al mondo intero.

Curioso intreccio tra l’alto e il basso, i margini e il centro: la prima pubblicazione di Burroughs, cioè Junkie, si deve all’incontro al New York Psychiatric Institute tra Ginsberg e il nipote del proprietario della casa editrice Ace Books. O del disagio mentale come pratica di networking. Tiratura: centomila copie. Venduto: un milione. Era il 1953.

All’uscita del Pasto nudo nel 1959, Life magazine dedicava uno strillo di copertina alla ribellione dei beatnik, e all’interno descriveva lo scrittore quarantacinquenne come «dedito alla droga e al deboscio»: abbastanza perché mamma Burroughs scrivesse al figlio preoccupata per la reputazione della famiglia e lui le rispondesse di stare tranquilla, alla fine era tutta pubblicità.

L’anno seguente, il quotidiano inglese Sunday People schiaffava la foto di William in un articolo sull’orrore beatnik e il suo «culto della disperazione che spinge gli adolescenti alla violenza».

Il suo profilo, all’epoca, scandalizzava soltanto i benpensanti — nel 1962 Il pasto nudo fu processato per offesa al pudore — mentre a leggere certe lettere oggi lo vedremmo nel migliore dei casi come un esponente rappresentativo dell’America degenerata di Donald Trump, nel peggiore come un individuo prevaricatore da richiudere al più presto.

«Cos’è mai successo al glorioso retaggio lasciatoci dai pionieri, che consentiva a ognuno di farsi gli affari propri? Il pioniere ormai si è ridotto a un burocrate disgraziato e liberal che s’intromette dappertutto».

Burroughs, intellettuale conservatore? Parrebbe proprio di sì, a leggere le sue lettere: «Per ogni sistema etico esistono due possibili basi: 1) Codice aristocratico. 2) Religione. I liberal li rifiutano entrambi, trovandosi con le mani vuote».

Anche il suo giudizio sulla rivoluzione studentesca degli anni Sessanta non è precisamente progressista: secondo lui le rivolte dei “capelloni” erano solo una messinscena ordita dalla Cia attraverso il «controllo computerizzato del pensiero».

Ironicamente, pochi anni dopo autori come Gilles Deleuze e Félix Guattari citarono le visioni burroughsiane come precorritrici…  della critica sessantottina del potere. All’epoca ci si era convinti che la sinistra dovesse seguire le orme di Sade e di Nietzsche, ovvero il sovvertimento di ogni ordine morale, e Burroughs incarnava l’uomo dell’avvenire, indomabile e ribelle. Eppure lui era il primo a combattere con forza la propria fascinazione per il male.

La passione di Joan

È effettivamente innegabile il fascino di queste lettere, che costituiscono contemporaneamente l’opera più accessibile, la più sincera e forse anche la più suggestiva dello scrittore americano, matrice dei suoi romanzi nella loro forma biografica originaria.

Da Città del Messico a Londra, passando da Venezia e Tangeri, scorre il fiume malvagio del passato di Burroughs, tra problemi di salute e visioni paranoiche, trasporti amorosi e ambizioni letterarie.

Adelphi aggiunge un tassello importante alla sua riedizione dell’opera omnia dello scrittore americano, che è anche un tassello di quel progetto culturale di “trasvalutazione dei valori” concepito mezzo secolo fa da Roberto Calasso anch’esso sotto gli auspici aristocratici di Nietzsche. In quest’ottica, la morte di Joan appare come il sacrificio fondativo di una sorta di culto dell’artista-superuomo, che nel catalogo Adelphi dialoga con le opere di Georges Bataille e del Grand Jeu.

Era davvero questa l’intenzione di Burroughs? Dalle lettere appare, se non del rimpianto o del senso di colpa, perlomeno un certo pudore sulla faccenda. Se l’omicidio divenne mito non fu per volontà sua, ma della macchina mediatica di cui era divenuto il burattino. 

Non si trovano molti dettagli sul caso Vollmer nell’epistolario, che precisamente tace tra il maggio del 1951 e l’aprile del 1952. Della povera Joan si facevano poche menzioni anche quand’era in vita: secondo l’amico Allen Ginsberg svolgeva solo un ruolo di copertura per la vita sessuale anticonformista del marito.

Nel frattempo, la ragazza scivolava in una dipendenza sempre più profonda, alla quale era stata iniziata dal giro degli scrittori beat. Il marito si sarebbe spinto a sostenere che in fondo era lei che voleva morire, salvo poi suggerire in una lettera da Tangeri del 1955 che il colpo di pistola aveva tradito un suo qualche desiderio inconscio di farla fuori.

Secondo Burroughs, la morte della moglie lo aveva messo in contatto con lo «spirito del male». Di tutte le sue esperienze mistiche, era stata la più potente. O perlomeno questa è la versione assolutoria che circola da mezzo secolo.

A fronte del continuo interesse che suscitano la vita e l’opera di Burroughs, periodicamente spuntano anche alcuni timidi tentativi di rivalutare la memoria di Joan Vollmer. Sara Mostaccio l’aveva ricordata su Elle parlando di una «promettente giovane donna interessata alla filosofia e alla letteratura», nonché «musa e patrona del circolo dei beatnik» attorno a cui si era creato negli anni 1940 il nucleo iniziale della Beat Generation.

Più duramente, il sito Bitch Media aveva riassunto la vicenda con le seguenti eloquenti parole: «A Great Artist Kills His Wife—Now She’s Just a Quirky Footnote in His History». Di suo pugno però non ho trovato nemmeno una riga di poesia: Joan è stata realmente cancellata.

Contro la burocrazia

Le lettere di Burroughs forniscono materiale sufficiente per rendere scomoda la posizione dell’intellettuale progressista che voglia continuare a celebrare il culto letterario del Guglielmo Tell delle lettere americane.

Innanzitutto perché proprio per i progressisti lo scrittore ha le parole più dure, in quanto questi (a cominciare dal suo amico Ginsberg) secondo lui non capiscono che l’America sta seguendo le orme dell’Unione sovietica nel dissolvere progressivamente le libertà individuali.

«Lo stato assistenziale è sulla buona strada per diventare uno stato comunista, e questo significa uno stato di polizia burocratizzato». Ma quali erano le libertà da proteggere? Burroughs si lamenta, ad esempio, di non poter sfruttare i braccianti messicani nella sua azienda agricola e di non poter usare liberamente le sue armi per difendersi.

Quelle stesse armi con cui ha ucciso sua moglie dopo averla a lungo torturata psicologicamente in nome del suo progetto esistenziale e artistico. Meglio il Messico, dove «se spari il massimo che possono darti è otto anni». Oggi negli Stati Uniti basta molto meno per beccarsi processo, licenziamento e damnatio memoriae.

Due pesi e due misure? Se c’è una cosa che abbiamo capito negli ultimi anni è che la scure della cancellazione cade secondo logiche imperscrutabili, governate dalle mode, dai rapporti di potere, dalle convenienze.

È inevitabile chiedersi allora perché nessuno abbia ancora pensato di cancellare Burroughs. Realisticamente, perché l’autore è morto un quarto di secolo fa e la sua fama resta circoscritta alla nicchia dei lettori forti, ai margini del canone, senza che si presentino occasioni polarizzanti come le celebrazioni pubbliche.

È in questo cono d’ombra che lo scrittore continua essere celebrato per quella medesima mostruosità che viene invece sanzionata nei vivi: ed è precisamente in questo scarto, che può apparire ipocrita, che si manifesta la natura cultuale del suo seguito, e di riflesso lo statuto ierofantico della classe intellettuale che stabilisce arbitrariamente chi va celebrato e chi va sanzionato. 

D’altra parte, cancellando Burroughs rinunceremmo a pagine come queste, che mescolano una violenta critica della burocrazia a un potente immaginario teratologico: «L’esito della rappresentazione cellulare completa è il cancro. La democrazia è cancerosa, e i suoi cancri sono i bureau. Un bureau mette radici ovunque in uno stato, diventa maligno come il Bureau Narcotici, e cresce e cresce, e si riproduce sempre di più, finché strangola l’ospite se nessuno lo controlla o lo asporta. I bureau non possono vivere senza un ospite visto che sono veri e propri organismi parassitici».

E più avanti, tra parentesi: «Si pensa che un virus sia una degenerazione di una forma di vita più complessa. Un tempo potrebbe essere stato capace di vita indipendente. Adesso è caduto così in basso da essere in bilico fra la materia viva e la materia morta. Mostra qualche caratteristica vitale solo dentro un ospite, usando la vita di un altro».

Via dall’Interzona

Intuizioni disordinate spedite a Ginsberg nel 1955, e che si ritroveranno in forma pressoché identica nel Pasto nudo, quattro anni dopo.

Vedere l’opera burroughsiana nel suo farsi, attraverso i frammenti dei libri futuri (cominciando dalla triade Junkie, Queer, Interzona, poi noti come La scimmia sulla schiena, Checca e Pasto nudo) che lo scrittore spedisce agli amici che lo incoraggiano, è uno degli aspetti più esaltanti di questa raccolta.

Più malignamente potremmo anche dire che l’opera che ne deriva si configura come l’estenuante diluizione di una serie di intuizioni che sono qui racchiuse nella loro forma più perfetta.

Cancellare Burroughs? L’uomo ha fatto e scritto cose orribili ma la sua esplorazione della parte maledetta resta per noi ancora suggestiva e rivelatrice, come fu nel caso del marchese di Sade.

Che questi autori siano pubblicati è sicuramente un bene: non come celebrazione di un modello da ammirare, quanto semmai come documento dello spirito del male — o forse più semplicemente della verità della vita, che si manifesta allontanandosi dalle sue forme più consuete e regolate. 

Fuori da ogni proiezione romantica, cos’era la mitica “Interzona” se non il nome di quello spazio disseminato tra le varie periferie dell’impero, dove andavano a spiaggiarsi gli scarti del sogno americano, esercitando il loro potere d’acquisto sulle vite dei subalterni, consumando come cocktail i due tabù fondamentali della civiltà, il sesso e la morte?

Come Batman

Quanto ai modelli di cui avremmo bisogno, gli scrittori da canonizzare, da insegnare a scuola, da mandare in prima serata in TV, a cui dedicare i nomi delle vie, bisognerà effettivamente trovarne di meno eccentrici e divisivi, tenendo sempre presente che la creazione umana non si esaurisce nel buono e nell’utile, ma spesso si esprime nel demoniaco e nello spreco.

Lo terremo presente ma eviteremo di sventolarlo ai quattro venti, perché i piaceri colpevoli restino colpevoli, e quindi piacevoli. Questo vale per Burroughs come per tutti gli scrittori, i musicisti, i cineasti, i fumettisti che si sono ispirati a lui, e che abbiamo letto, ascoltato, visto negli ultimi quarant’anni, da Robert Wyatt all’industrial, da David Cronenberg a Grant Morrison. Non a caso mica li abbiamo studiati a scuola, mica li abbiamo visti su RaiUno.

In fondo Burroughs è come Batman: «L’eroe che ci meritiamo, ma non quello di cui abbiamo bisogno adesso». Leggere le sue epistole è un’esperienza letteraria unica, ma di tutta evidenza un’esperienza novecentesca; e il Novecento è finito, parrebbe, da almeno mille anni.

© Riproduzione riservata