Circolano alcuni luoghi comuni su Petrolio (l’ambizioso romanzo che Pier Paolo Pasolini stava scrivendo quando fu ucciso) che svaniscono alla prova della lettura. Il primo luogo comune è che si tratti di un romanzo pieno di sesso spinto, per non dire di porcherie frocie.

Il protagonista Carlo che si fa fottere da venti ragazzi in fila su un pratone della Casilina, senza risparmiare dettagli pornografici, eccetera. È vero che questo lungo capitolo, insieme all’altro altrettanto lungo che racconta la scopata in camporella col giovane siciliano Carmelo, sono forse i più stilisticamente curati del libro, ma la pornografia non c’entra niente.

Tecnicamente, nel momento della trama in cui questi incontri sessuali avvengono (nel pratone in realtà solo nove), il protagonista si è trasformato in donna e dunque si tratterebbe di episodi di ninfomania; ma è vero che a questa trasformazione non crede nemmeno Pasolini, per lo meno in senso realistico – gli aggettivi sono per lo più al maschile, le frasi e gli atteggiamenti sono inequivocabilmente quelli dell’ambiente omosessuale.

I due episodi sono in realtà una riflessione politica sul ruolo passivo nel sesso: con un pensiero latente tipicamente machista (“possedere” sessualmente significa “avere potere su”) Pasolini proclama che, siccome il Potere è il male assoluto, così essere posseduti significa stare dalla parte del Bene. L’insistenza sulla passività del protagonista non è pornografica ma esistenziale.

Il tema del Doppio

Il secondo luogo comune è che sia un romanzo sul tema del Doppio, sul tipo di Jekyll e Hyde nel libro di Robert Louis Stevenson. Lo sdoppiamento è clamoroso, sì, ma non tiene fino in fondo nel testo. Carlo Primo, il politico, finisce per abbandonarsi sia pure senza grazia a exploit sessuali, mentre tocca a Carlo Secondo assistere alla passeggiata del Merda tra le borgate ormai sfigurate dall’omologazione culturale. Il primo è padrone e il secondo è servo, ma anche viceversa.

Pasolini stesso lo ammette: non è un romanzo sulla dissociazione ma sui problemi dell’identità e della sua frantumazione. Il dato è biografico: è Pasolini che non ha mai ammesso nel proprio inconscio né di essere omofilo né di essere borghese – e che scopre con raccapriccio quanto la sua perversione e il consumismo abbiano una matrice comune. Alla fine, quando i due Carli esauriscono la loro carica, appare un misterioso Cornelio che forse li riassume entrambi e forse è il Diavolo.

Le stragi di stato

Il terzo luogo comune è che si tratti di un libro che dice la verità sulle stragi di stato. Quella di cui ci si occupa di più è l’attentato di piazza Fontana del 1969; su Eugenio Cefis ci sono molte pagine plagiate da un pamphlet ma poi la sua storia narrativamente si perde (anche ammesso che due suoi discorsi fossero stati inseriti nel testo); in un appunto che compare ora nella nuova edizione Garzanti per la prima volta, l’assassinio Enrico Mattei è reduplicato dall’assassinio di Cefis stesso avvenuto il giorno del funerale di Amintore Fanfani, come se tutto dovesse sfumare in una fantasia distopica.

Nel capitolo centrale da questo punto di vista, quello in cui un agente mafioso americano rivela in punto di morte come sono andate le cose, sappiamo che tutto è stato registrato sul nastro di un piccolo Nagra ma di quella registrazione nulla viene riportato.

L’unica cosa che si viene a sapere è che i tempi delle stragi sono stati due, uno in funzione anticomunista e uno in funzione antifascista; Pasolini non conosce nessuna verità e quindi non può rivelarla. Anzi, si stupisce della stupidità del Potere, che ha orchestrato un enorme sanguinoso macchinario per distruggere qualcosa che aveva già distrutto in altro modo (con la mutazione consumista). La verità politica ultima del libro è che la Storia è un grande scherzo, un caos ottuso che si riduce al Nulla e che merita soltanto una risata.

Il quarto luogo comune è che si tratti di un romanzo sapienziale ed esoterico, paragonabile al percorso che facevano gli adepti durante i misteri eleusini. È vero che a un certo punto si parla del ciceone, la bevanda a base di segale cornuta che ha lo stesso principio attivo dell’Lsd; è vero che si nomina Demetra e il rito dell’anasyrma (cioè del mostrare grottescamente gli organi sessuali), ma Pasolini non ha mai avuto la disciplina necessaria a percorrere davvero un sentiero sapienziale, si limita a spargere qua e là accenni di seconda o terza mano.

Il suo Carlo alla fine compie un viaggio a Edo (odierna Tokyo) ma al ritorno non sa fare di meglio che ritirarsi in un eremo dopo essersi castrato. Prende tutto alla lettera, rozzamente. La sua “santità” assomiglia più a quella di un poeta come Sandro Penna che a un Illuminato.

Un capolavoro?

Il quinto (e forse ultimo) luogo comune è che Petrolio sia il capolavoro di Pasolini. Il libro è ancora troppo informe perché si possa affermare una cosa del genere; insieme a brani di indubbia bellezza ci sono pagine raffazzonate e mal scritte, il finale semplicemente non esiste perché Pasolini non ha fatto in tempo a immaginarlo. Non sono nemmeno sicuro che sarebbe arrivato a finirlo, la carriera pasoliniana è ricca di monumenti grandiosi lasciati a mezzo: così il romanzone pensato in Friuli, che doveva unire le lotte sociali ai tormenti di un prete omofilo e le avventure dell’emigrazione alle bizzarrie di un giovane borghese con crisi religiose; così il progettato rifacimento della Commedia dantesca ai giorni nostri, non andata molto al di là dei primi due canti.

Pasolini era uno che pensava in grande ma spesso si accontentava di mezzi fallimenti, più significativi (ai suoi occhi) di certe riuscite. La fortuna di Petrolio è stata di comparire in tempi di risorgente avanguardia, e di ricomparire ora che va di moda l’opera trans-testuale, multimediale, il testo che farà finire tutti i testi eccetera. È un anti-romanzo che vuole rifondare il romanzo, un po’ come Laurence Sterne con Tristram Shandy nel Settecento; è un libro che allude a un’estetica del brutto senza riuscire realmente a fondarla.

È il libro che probabilmente ha provocato l’assassinio del suo autore, e questo certo lo dota di un fascino mitico (il poeta che muore per la propria opera); ma chi ha ucciso Pasolini per farlo tacere ha probabilmente sopravvalutato l’effetto che un libro così complesso, a strati, elitario, avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica.

Il senso del romanzo

In ultima analisi, che cosa significa il romanzo allo stato acerbo di redazione in cui Pasolini lo ha lasciato? Riducendo proditoriamente all’osso, è la storia di un borghese che fa carriera all’Eni ed è contemporaneamente afflitto da una indomabile erotomania. Cattolico di sinistra, assomiglia in alcuni tratti al socialista Francesco Forte e nell’erotomania a Pasolini stesso, ma ha il nome del padre di Pasolini.

È un essere disposto a tutto, sia sul lavoro che nel sesso, ma senza grandezza nemmeno nel male; è uno di quei temperamenti che si definiscono “tiepidi” e il suo autore lo trova francamente ripugnante. Non ha la grandezza di uno Stavroghin, semmai è ispirato al Čičikov delle Anime morte o al Peredònov del Demone meschino; come questi due modelli, è lo strumento che l’autore usa per mostrare l’orrore del contesto che lo circonda (nel suo caso, le complicità criminali del Potere e l’inferno concentrazionario dell’omologazione culturale).

Per lui Pasolini non ha trovato nemmeno quel minimo di amore che Gogol’ e Sologub hanno saputo trovare per i loro protagonisti (per non parlare di Dostoevskij), tant’è vero che spesso nel romanzo lo riduce a pura passività e si ha l’impressione che non veda l’ora di disfarsene.

Il finale non esiste, non perché Pasolini ci tenga a lasciare “aperto” il romanzo, ma perché non ha proprio fatto in tempo a scriverlo e non aveva le idee chiare (la pagina del dattiloscritto che dice “seconda parte” si trova molto squilibrata in avanti).

Alla fine Carlo si castra, come dicevo, dà scandalo negli ambienti politici e si ritira in solitudine. Un protagonista-pretesto per scattare verso un’altra orbita. Pasolini è sempre stato bravissimo a trasformare le sue mancanze in spunti creativi: in Petrolio trasforma lo smarrimento esistenziale e psicologico in critica della forma, fino a immaginare un libro-coacervo, simbolica franante rovina, con parti scritte in greco o in giapponese, e articoli altrui, e lettere, e foto.

L’erotomania è insieme compenso alla frustrazione pubblica e metafora dell’orgia del Potere. Quando (e se) fosse stato finito, sarebbe stato un tassello importante di quella strategia comunicativa che ha caratterizzato gli ultimi anni pasoliniani: mescolare inestricabilmente vita e letteratura, fare del proprio stesso corpo un segno letterario espressivo e comunicativo. Tragicamente, il suo cadavere maciullato all’Idroscalo di Ostia ha rappresentato, per il mondo dei media, il suo estremo testo sperimentale.

© Riproduzione riservata