Cosa succede quando un gruppo di professori di management va in lockdown? Si potrebbe immaginare di tutto, tra discussioni virtuali sull’andamento della borsa, sulla creazione di nuovi modelli di business e invece... questo gruppo di esperti di numeri e molto altro, ha rilanciato l’idea che l’anima creativa è presente in ognuno di noi. La cucina è un’espressione artistica al pari di altre forme più note come la musica, la danza e la recitazione.

Quando gli inarrestabili professori della Bocconi mi hanno contattato per presentarmi il progetto e per chiedermi di scrivere la prefazione di questo libro, ho avvertito immediatamente la necessità di curiosare tra le ricette, le fotografie e conoscere gli autori nel loro quotidiano e confrontarli con le ricette che avevano immaginato. Mi faceva sorridere anche l’idea di questa momentanea e lusinghiera inversione di ruoli.

Il legame di ognuna delle ricette con un preciso momento della propria vita è evidente e tangibile, accompagnata da fotografie che riprendono i “cuochi” nei momenti più diversi: da soli in cucina, sorridenti, o in momenti familiari, che svelano quanto questo lockdown non sia stato del tutto inutile. Come esseri umani, nei momenti più difficili, abbiamo la capacità di sopravvivere non solo fisicamente: le più grandi rinascite emotive avvengono proprio in questi frangenti.

Lo spessore delle persone si misura dalla capacità di muoversi in campi diversi con la stessa disinvoltura con cui preparano uno spaghetto al pomodoro. Sono coloro che non hanno paura di affrontare il nuovo e lo sconosciuto. Nel guardare le foto, nel leggere le ricette, io vedo persone eccezionali che si sono lanciate nell’“unknown” con quel pizzico di ironia che è caratteristica solo dei grandi.

Un ricettario scritto da non-cuochi rende la concreta testimonianza di quanto questo lockdown datato 2020 abbia contribuito a farci scoprire angoli nascosti della nostra anima che altrimenti avremmo ignorato. Una piccola time capsule, sì proprio come quelle che trovi nei paesini del Texas o Oklahoma per strada, da riaprire fra anni per provare una di quelle ricette, giusto per ricordarci che ognuno di noi ha in sé qualcosa da scoprire e regalare alle generazioni future.

Introduzione

di Paola Cillo, Alfonso Gambardella, Severino Salvemini

Abituati a muoverci a gran velocità da un’aula all’altra per fare lezione e a socializzare continuamente nelle sale riunioni e nei corridoi, chiacchierando della nuova rivista uscita o dell’ultimo commento al provvedimento economico, il virus ci ha chiusi dentro casa e ha buttato via la chiave.

Per almeno due mesi (per qualcuno più prudente anche di più) siamo stati costretti in un ambiente domestico, i più fortunati con terrazzo e giardino all’aperto, altri con solo l’inquadratura esterna proveniente dalle finestre. Abbiamo lavorato, certo: abbiamo fatto lezione online, abbiamo approfittato per fare gli ultimi ceselli al paper che ci era stato rimandato indietro per una revisione (o ci siamo imbestialiti alla solita rejection!), abbiamo progettato corsi e nuove ricerche, abbiamo concluso in pochi giorni un numero di esami fino a quel momento impensabile.

Smartworking l’hanno chiamato. Ma ormai siamo convinti che di smart ci fosse proprio poco, al di là dell’upgrading che in molti di noi il lockdown ha prodotto in termini di nuove competenze digitali.

E poi la nuova attenzione ai nostri cari e alle persone con cui abbiamo condiviso le giornate di lockdown. Una socializzazione diversa dal solito. Per alcuni, un più continuo confronto con la propria famiglia, chi con i figli, o anche con i nipotini, o più in generale con familiari o persone care che non frequentavamo così intensamente quando eravamo liberi di entrare e uscire di casa.

Il tempo di queste relazioni non era più scandito dalle solite pause canoniche, ma si dilatava e si restringeva a seconda delle esigenze quotidiane. Un tempo sospeso, l’hanno chiamato. Una dimensione rarefatta in cui venivano a mancare le scansioni dell’orario. Dove perdersi diventava facile.

Il Covid-19 si era insinuato nella routine quotidiana facendo saltare ogni precedente ritmo o abitudine. Per altri, un periodo per certi versi di riflessione solitaria per potersi ritagliare degli spazi che la frenesia della vita aveva rubato; a tratti di solitudine e di rimpianto per piccole cose quotidiane, come il caffè o il pranzo con i colleghi, che questo periodo ha reso adesso ancora più speciali.

E in tutto ciò parecchio tempo libero per stare anche dentro le nostre cucine. Perché non provare a vivere questo tempo nuovo come una opportunità? Era il momento perfetto per approfondire o per sperimentare finalmente le tante ricette che avevamo sempre desiderato preparare ma che non avevamo mai tentato. Ci sono molti modi in cui si manifesta l’affetto e la cura per le persone che ci stanno accanto e in Italia la manifestazione d’affetto attraverso il cibo è una tradizione antichissima.

Cucinare per i nostri cari durante la quarantena – e anche cucinare per noi stessi – è stato anche questo. Una ritualità che ha consentito di rinsaldare ogni giorno i rapporti con le persone a noi care e che ha rafforzato quella armonia casalinga messa a volte un po’ sotto scacco dalla vicinanza forzata per tanti giorni sotto lo stesso tetto.

E anche al cuoco o alla cuoca i benefici del cucinare hanno consentito di alleviare lo stress in un momento di grande ansia e di grande incertezza a tutti i livelli. Il cibo ha rappresentato un’àncora che ha consentito di mantenersi attaccati alla realtà: confrontarsi con le ricette, prima, e dopo sedersi a tavola in un momento di aggregazione sociale per condividere ciò che si è creato, sono state azioni cariche di significato e hanno mandato avanti la giornata un po’ meno faticosamente.

Questa è stata la sensazione principale che abbiamo condiviso quando, a fine marzo 2020, docenti e staff del Dipartimento di Management e Tecnologia ci siamo ritrovati nel tardo pomeriggio per un aperitivo virtuale, dopo che era passato più di un mese dalla chiusura dell’università. C’era voglia di socialità e di salutare i colleghi lontani (e molti erano davvero dall’altra parte del mondo, perché rientrati nel loro domicilio di origine) in un momento di leggerezza, di cui tutti sentivamo il bisogno, e di unione e di condivisione delle emozioni, delle sfide quotidiane, delle paure, e dell’incertezza per quello che il domani ci riservava, soprattutto in questa fase drammatica per molte persone, anche vicine a noi, alle quali va tutto il nostro affetto, sensibilità e rispetto.

Sebbene tutti in un responsabile stato di allerta, ci siamo quindi scambiati le nostre esperienze e, tra le altre, sono emerse le occasioni culinarie, perché per tutti il cucinare “faceva stare bene”. Stare in cucina e provare nuove emozioni dava un senso al vuoto. E al contempo un senso di integrità.

Ci siamo perciò ritrovati a discutere sui piatti che avevamo deciso di riprendere a cucinare a casa, riscoprendo anche le tradizioni delle nostre mamme o delle nostre nonne (e in alcuni casi anche dei nostri papà e nonni). Ed è inutile negarlo: ci è sembrato di tornare indietro, in un’epoca lontana fatta di tradizioni e di piccoli gesti. Del resto cucinare è un’arte antica, che si è sviluppata e raffinata nei secoli e, se è vero che parliamo come mangiamo, in questo periodo dovremmo tutti esprimerci in modo un po’ più semplice e genuino (o almeno si spera).

È stata curiosa anche la commistione di sentimenti tra gli italiani e i non italiani. Anche quando gli stranieri sono qui da anni e cucinano con ottimi ingredienti italiani, noi italiani siamo sempre lì con il ditino puntato a dire “come si dovrebbe cucinare” e cosa non fare. Ma in questo caso gli stranieri hanno dato la stessa attenzione a condividere il pasto cucinato.

Ed allora è emersa l’idea di ricordare questo periodo con un piccolo libello, che riportasse ciò che ci siamo detti in quella sera. Un insieme di ricette che scaturisce da un’intensa quarantena.

Questo libello è il frutto delle persone del nostro Dipartimento e un po’ ne rappresenta lo spirito. Un gruppo di persone che, al di là dell’impegno e delle discussioni sulla didattica e sulla ricerca, o su come gestire il Dipartimento e l’università, o anche il paese, l’Europa e la società civile, è improntato a una forte collegialità e a grande rispetto reciproco e amicizia.

In questo libro mettiamo perciò assieme cibi, culture, aneddoti e tradizioni diverse. Forse questo è il nostro successo più grande: dimostrare che è possibile lavorare e interagire in maniera collaborativa tra persone diverse, provenienti da culture diverse, che concepiscono questa diversità come un’occasione di arricchimento e di confronto positivo e sempre costruttivo.
E siccome siamo in Italia, il cibo è uno dei collanti più importanti, dai pranzi nei tavolini del nostro edificio per discutere davanti a una schiscetta o lunch box (a seconda di come lo si chiami), all’elaborazione di questo testo, che a questo punto vuole anche essere un piccolo riconoscimento alla collegialità di un ambiente di lavoro diventato per tutti noi un luogo di crescita non solo professionale ma anche personale, sociale e culturale.

               


Paola Cillo, Alfonso Gambardella, Severino Salvemini hanno curato la pubblicazione del libro La nostra quarantena - Le ricette del dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi in epoca di lockdown, edito da Egea

Gattò di patate (e non è un refuso!)

(di Paola Cillo, Dipartimento di Management e Tecnologia)

Si chiama gattò di patate, dall’italianizzazione della parola francese gateau. La parola sembra antecedente al 1775 e nei dizionari risulta come “tortino cotto al forno a base di patate, uova, formaggio, ecc., tipico della cucina napoletana”.

È uno dei miei piatti preferiti perché mi riporta all’infanzia e alla vita in famiglia. Mia mamma lo preparava spesso perché diceva che era un piatto unico, semplice da preparare e veloce da mettere in tavola. Me ne sono ricordata in questi giorni di lockdown in cui ho fatto fatica a conciliare le mie lezioni online con il poco tempo che i miei ragazzi avevano per pranzare (circa 40 minuti) in cui io spesso ero impegnata.

Ho pensato che il gattò di patate che mia mamma decantava come piatto efficiente potesse fare al caso mio e l’ho preparato varie volte, spesso la sera per poi scaldarlo a pranzo. I miei figli lo adorano e sono supercontenti di questa scoperta perché a loro, finora, non lo avevo mai cucinato.

Mi fa quindi piacere poter condividere la ricetta, sperando possa essere utile a chiunque voglia mettere qualcosa di buono a tavola, ma non abbia molto tempo per cucinare. La bellezza del gattò è che si può preparare anche il giorno prima (in effetti, il gattò è una di quelle pietanze che diventano più buone se fatte riposare) o congelare e poi mettere in forno.

Ingredienti (per 4/6 persone)

1,5 kg di patate

tre uova

300 g di fiordilatte

300 g di prosciutto cotto

parmigiano reggiano grattugiato a piacere olio q.b.

sale q.b.

burro q.b. pangrattato q.b.

Preparazione (per 4 persone)

Lessare le patate con la buccia per circa un’ora. Aspettare che si raffreddino e poi, una volta tolta la buccia, schiacciare con lo schiacciapatate in una boule capiente. Sbattere le uova in un piatto e aggiungerle alle patate. Salare il composto e poi aggiungere il prosciutto a pezzetti (o a dadini se si preferisce), il fiordilatte a pezzetti e il parmigiano grattugiato. Amalgamare il tutto con una spatola.

Imburrare una teglia e cospargere il fondo con del pangrattato. Aggiungere poi il composto e livellarlo con una spatola, come a formare un tortino. Cospargere il tortino di pangrattato e qualche fiocchetto di burro.

Infornare in forno preriscaldato a 180°C per 30 minuti e per 3-4 minuti a 240°C con funzione grill per formare la crosticina dorata. Lasciare raffreddare per 15 minuti prima di servire.


Crostate di famiglia

(Alfonso Gambardella e Myriam Mariani

Dipartimento di Management e Tecnologia)

Vi proponiamo due torte della tradizione delle nostre famiglie. La prima è la “crostata di kumquat”, dalla famiglia di Alfonso, la seconda è la “crostata di ricotta, amaretti e cioccolato”, dalla famiglia di Myriam.

L’origine della “crostata di kumquat” risale alla nascita di Alfonso quando ai suoi genitori fu regalata una piantina di kumquat. Per diversi anni non ha prodotto frutti, finché la famiglia si è trasferita da un appartamento a Roma in una casa con giardino a Genova. Sarà stato il terreno, sarà stato il clima di Genova, la piantina ha cominciato a crescere diventando un albero di tre metri che produce centinaia di kumquat due volte all’anno. La famiglia di Alfonso ha cominciato così a mangiare kumquat, a lavorarli e cucinarli in vari modi e a produrre grandi quantità di marmellata, da cui la crostata.

La “crostata di ricotta, amaretti e cioccolato” è un’antica tradizione della famiglia di Myriam, che sua mamma Domenica, con le due sorelle Fiorangela e Apollonia, cucinavano nei giorni di festa a Berceto, loro paese d’origine. Ma qual è il legame di tutto questo con l’isolamento?... Beh, crostata di kumquat un giorno, crostata di ricotta, amaretti e cioccolato l’altro, abbiamo scandito l’alternarsi dei giorni!

Ingredienti

Preparazione della pasta frolla (stesso procedimento per entrambe le crostate, economie di scopo!). Dose per uno stampo da 24 cm:

250 g di farina

100 g di burro freddo

100 g di zucchero semolato

un uovo

un pizzico di sale

una scorza di limone grattuggiata

Preparazione

Mettere in un recipiente farina, zucchero, sale, burro a pezzetti e formare un impasto sbriciolato. Aggiungere la scorza di limone grattuggiata e l’uovo. Impastare e far riposare in frigorifero per 30 minuti. Passati i 30 minuti stendere l’impasto in modo da formare un disco di pasta frolla con diametro di circa 30 cm. Mettere il disco in una tortiera di diametro di 24 cm lasciando un bordo di 2-3 cm. Bucherellare ripetutamente il disco con una forchetta.

Per la “crostata di kumquat” far crescere un albero di kumquat e quando i frutti sono maturi raccoglierli. Fare la marmellata di kumquat aggiungendo 50 g di zucchero di canna per ogni 100 g di kumquat (dopo aver tolto i semi). Portare ad ebollizione per almeno 20 minuti a fuoco dolce fino a che il composto non si sia rappreso. Poi metterlo sopra la crostata (circa 1 cm di spessore).

Se proprio non si riesce a far crescere l’albero di kumquat (o non si ha il tempo che avevamo noi durante il lockdown), potendo finalmente uscire, comprare i kumquat.

Per la “crostata di ricotta, amaretti e cioccolato” mischiare 300 g di ricotta, 200g di amaretti secchi sbricolati, 80 g di zucchero, 100 g di cioccolato fondente spezzettato in pezzi abbastanza piccoli e 10 g di rum. Quando il composto è omogeno, versare sulla pasta frolla per uno spessore di circa 2 cm. Per “entrambe le crostate” cuocere per circa 30 minuti in forno a 180 gradi finché la pasta non risulti dorata.


Focaccia pugliese

(Severino Salvemini

Dipartimento di Management e Tecnologia)

Questa è una ricetta di mia nonna Maria, originaria di Molfetta (Puglia). Mi è stata tramandata da mio padre e io l’ho poi tramandata ai miei figli (e tra un po’ arriverà ai miei nipotini...). La cucino spesso e mi ricorda le mie radici meridionali.

Va gustata con un piatto a parte di salumi (consiglio mortadella) e un vino fresco (meglio rosè). Ideale al mare dopo il bagno di mezzogiorno.

Ingredienti

500 g di farina bianca

250 g di farina integrale

50 g di lievito di birra (sciolto in acqua con

mezzo cucchiaio di sale grosso) due patate grosse

pomodori perini

Preparazione

Fare la pasta (farina bianca, integrale, lievito).

Nel frattempo sfarinare le patate bollite nella pasta (le patate devono essere fredde, perché se no reagisce subito il lievito!) e lavorarla fino a che non si lascia l’impronta del dito.

Lasciare riposare 2-3 ore in un luogo tiepido avvolta in un canovaccio.

Metterla in una teglia oliata abbondantemente, dopo averla rimpastata con un cucchiaino d’olio. Spargere sale grosso e pomodori perini tagliati a metà per lungo e origano.

Cuocerla nel forno caldo (200 °C) fino a quando risulti ben cotta.

Variazioni:

Se la teglia è rotonda forse è il caso di ridurre le dosi del 30%.

* Chef del ristorante stellato Glass Hostaria di Roma e presidentessa dell’Associazione Ambasciatori del Gusto.

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