Sinda Gregory: Che cosa ti ha spinto a tornare alla poesia, dopo tanti anni nei quali ti sei concentrato esclusivamente sulla narrativa?

Sono venuto a Port Angeles con l’intenzione di portare a compimento un lungo racconto che avevo cominciato a Syracuse. Ma quando sono arrivato qui, sono rimasto cinque giorni seduto a godermi la pace e il silenzio (non avevo né un televisore, né una radio): un cambiamento davvero gradito, dopo tutte le distrazioni di Syracuse. E trascorsi quei cinque giorni mi sono ritrovato a leggere un po’ di poesie. Poi, una sera, mi sono seduto alla scrivania e ne ho scritta una. Erano due anni, forse più, che non mi succedeva di farlo, e da qualche parte nella mia mente me ne lamentavo, o mi rimproveravo di aver trascorso così tanto tempo senza pensare alla poesia. Per esempio, nel periodo durante il quale ho scritto i racconti di Cattedrale ero convinto che non mi sarebbe riuscito di scriverne una neppure con una pistola puntata alla tempia. E non ne leggevo neanche, a parte quelle di Tess. In ogni caso, quella sera ho scritto la mia prima poesia da molto tempo, e poi il giorno dopo mi sono alzato e ne ho scritta un’altra. E il giorno successivo un’altra ancora. È andata avanti così per dieci settimane; le poesie si susseguivano, come sull’onda di una meravigliosa energia. La sera mi sentivo completamente svuotato, ridotto uno straccio, e mi chiedevo se mi sarebbe rimasto qualcosa da dire, il giorno dopo. Ma il giorno dopo c’era sempre qualcosa da dire, come se la sorgente non potesse mai seccarsi. E così mi alzavo, bevevo un caffè, andavo alla scrivania e scrivevo un’altra poesia. Mentre succedeva, avevo quasi la sensazione che qualcuno mi avesse dato uno scossone bello robusto, e che all’improvviso tutte le chiavi mi stessero cadendo dalle tasche. Non c’è mai stato un periodo in tutta la mia vita nel quale la gioia di scrivere mi abbia travolto come in quei due mesi.

SG: Nell’articolo su tuo padre che è uscito per Esquire citi una poesia che hai scritto, Fotografia di mio padre a 22 anni, dichiarando che «la poesia è stata un modo per creare una connessione con lui». Quindi la poesia ti offre un modo più diretto di relazionarti al tuo passato?

Direi di sì. È un modo più immediato e più veloce per farlo. Queste poesie soddisfano il mio desiderio di scrivere qualcosa e di raccontare una storia ogni giorno – in qualche caso due o tre volte al giorno, o addirittura quattro o cinque. Quanto al relazionarmi al mio passato, però, va detto che le mie poesie (e anche i miei racconti), pur avendo una qualche base nella mia esperienza personale, sono al tempo stesso atti immaginativi. Insomma, nella maggior parte dei casi sono frutto di invenzione.

Larry McCaffery: Quindi anche nelle tue poesie la persona che parla non coincide mai esattamente con te?

Esatto. Come del resto nei miei racconti in prima persona. Quei narratori che dicono “io” non sono mai me, in realtà.

SG: Nella tua poesia Per Semra, con vigore marziale, il narratore dice a una donna: «Tutte le poesie sono d’amore». Quest’affermazione non vale, in un certo senso, per tutti i tuoi versi?

Tutte le poesie sono atti d’amore, e di fede. Scrivere poesie è così poco remunerativo, in termini economici ma anche di fama o di gloria, che scriverne una dev’essere un atto che trova in sé stesso la sua giustificazione e che non ha altri fini da perseguire. Per volerlo fare, dev’essere qualcosa che ami veramente. In questo senso, perciò, ogni poesia è una “poesia d’amore”.

LM: Per te ha rappresentato un problema alternare un genere e l’altro? C’è una differenza nel processo compositivo?

Il passaggio da un genere all’altro non è mai stato un problema. Immagino che sarebbe stato più inconsueto per uno scrittore che non abbia lavorato in entrambi gli ambiti quanto l’ho fatto io. In realtà ho sempre sentito e sostenuto che la poesia, per gli effetti che ottiene e per il modo in cui è composta, sia più vicina al racconto di quanto il racconto lo sia a un romanzo. I racconti e le poesie si somigliano molto di più per lo scopo perseguito nel processo di scrittura, per la compressione del linguaggio e delle emozioni, e per la cura e il controllo necessari a raggiungere il loro obiettivo. A me il processo di scrittura di una poesia e quello di un racconto non sono mai sembrati così diversi. Tutto ciò che scrivo proviene da uno stesso punto d’origine o fonte, che si tratti di un racconto, di un saggio, di una poesia o di una sceneggiatura. Quando mi siedo a scrivere, parto letteralmente con una frase o con un verso. Devo sempre avere in mente almeno una frase o un verso, che io decida di optare per una poesia o per un racconto. Tutto il resto può essere oggetto di diverse modifiche, ma quella prima frase o verso cambia di rado. In qualche modo mi spinge a scrivere il verso o la frase successiva, e a quel punto il processo subisce un’accelerazione e acquisisce una direzione. Quasi tutto quello che scrivo passa per diverse revisioni, e mi capita spesso di saltare da un punto all’altro, e magari di tornare indietro. Non mi dispiace affatto rivedere le mie cose, anzi, spesso mi diverto a farlo. Don Hall ha impiegato sette anni per scrivere e perfezionare le poesie che compongono il suo ultimo volume. Alcune poesie le ha riviste centocinquanta volte o giù di lì. Io non sono ossessivo fino a questo punto, ma è vero che lavoro molto in fase di revisione. E credo che alcuni tra i miei amici abbiano qualche dubbio sulla sorte di queste poesie. In generale, non pensano che si possa o si debba scrivere una poesia alla velocità con la quale ho scritto le mie. Dovrò dimostrare loro il contrario.

Per gentile concessione di University of Illinois Press e Larry McCaffery e Sinda Gregory


Il 22 aprile esce per Minimum Fax un cofanetto in due volumi con tutte le poesie di Carver e un’intervista inedita di cui abbiamo pubblicato uno stralcio in questa pagina

 

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