Like a complete unknown, come tutti sappiamo, è Verbo dylaniano. Ricorre nel refrain di Like A Rolling Stone, esaltato da quelle pazzesche note d’organo suonate da Al Kooper, che di suo nasceva chitarrista. E se fosse autoironico A Complete Unknown sarebbe il più azzeccato dei titoli per il biopic di James Mangold che esce da noi con The Walt Disney Company il 23 gennaio, contando sulla fanseria giovanile di Timothée Chalamet per riempire le sale. Perché dopo due orette e venti di film Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, resta esattamente tale: un completo sconosciuto.

Non si fa la storia coi "se”, ma se qualcuno ha le carte in regola per raccontare l’alba di un’icona globale pronta a spiegare le ali, quel qualcuno si chiama Martin Scorsese. È il solo regista che riesce a piazzare un Dylan parlante davanti alla camera, e nel corso degli ultimi quarantasette anni gli ha dedicato ben tre documentari irripetibili: dopo L’ultimo valzer (1978), No Direction Home nel 2005 e Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan Story by Martin Scorsese, nel 2019, che è ancora su Netflix.

Questo biopic lo firma invece Mangold, autore che saltella tra i generi ma vent’anni fa ha dedicato a Johnny Cash il suo Quando l’amore brucia l’anima - Walk the Line. Prima dell’uscita negli Usa Dylan ha twittato una sorta di endorsement a scatola chiusa, scommettendo su Chalamet protagonista («Timmy’s a brilliant actor, so I’m sure he’s going to be completely believable as me. Or a younger me. Or some other me») ma soprattutto confidando nel rispetto del libro di Elijah Wald ispiratore, Dylan Goes Electric! Newport, Seeger, Dylan and the Night that Split the Sixties (Il giorno che Dylan prese la chitarra elettrica, Vallardi ed.). Se avessi guardato il film a occhi chiusi, magari mi sarebbe piaciuto: il viaggio musicale tra le hit del primo Dylan è un viaggio in Paradiso. Visto a occhi aperti, è un compitino diligente senz’anima e senza sugo.

Cercasi Dylan, disperatamente

La cosa migliore di A Complete Unknown è il mite Pete Seeger di Edward Norton, figura chiave in quella manciata di anni, tra il 1961 e il 1965, che separano l’approdo nel West Village newyorchese di un ragazzo col mito di Woody Guthrie dallo scandalo del set “elettrico” al Newport Folk Festival, tempio del folk revival politicizzato e della controcultura. Il cherubino Chalamet non può simulare la faccia affilata di quel diciannovenne del Minnesota in cerca di gloria. Però riproduce con scrupolo il suo timbro nasale e quella dizione ruminata, quando non canta, che gli appassionati conoscono bene. Imita passabilmente, detta in soldoni. Checco Zalone potrebbe fare di meglio.

Monica Barbaro, sbadatamente chiamata a incarnare Joan Baez, non prova nemmeno a emulare l’ugola di cristallo dell’originale. Sarebbe utopia. Quella gente però sprizzava luce e carisma non solo da gola e diaframma, anche dagli occhi. Dentro gli occhioni belli di “Timmy” c’è il vuoto pneumatico. Giuro che non è la percezione viziata di chi è cresciuto con l’impatto galvanizzante di Blowin’In The Wind, di Masters Of War, di The Times They Are A-Changin’, di A Hard Rain’s A-Gonna Fall, tutta roba che suonava Marcia su Washington, diritti civili, speranza. Quando la star più acclamata dell’ultima generazione in conferenza stampa parla dei tempi evocati dal film è imbarazzante: si è misurato col Mito, ma non ha fatto i compiti a casa. Non è un esame di storia, e non ci sono pagelle da sfoderare. Ma al cinema chiedi emozioni, e non le trasmetti se non le conosci. Mangold si cava d’impiccio delegando i brividi e l’empatia alle canzoni. Quelle che contano ci sono tutte. Ma dicono le stesse cose ai nati nel Terzo Millennio?

Il futuro del folk

Non ci sono buoni e cattivi, nel film, ma vincitori e vinti sì. Quando il ragazzo Dylan piomba in New Jersey al capezzale di Woody Guthrie divorato dal morbo di Huntington e intona la sua Song For Woody, Pete Seeger si illumina. Ha visto il futuro. Forse è arrivata una voce capace di traghettare un sound folk rinfrescato verso un consumo da classifiche. Ci vorrebbero le note a piè di schermo per spiegare la militanza musicale di Seeger, l’eredità di Guthrie e quell’etichetta radicale, da comunista, che gli ha reso familiari i tribunali maccartisti. Quel talento grezzo gli sembra la versione umana della famosa scritta sullo strumento di Guthrie: «Questa chitarra uccide i fascisti». Della protesty Bobby – come ancora lo chiamano – diventerà presto il simbolo più luminoso, il Messia: giusto il tempo di evolvere dalle cover per la Columbia Record alla creatività visionaria del songwriter.

Il ritrattino del genio è più o meno quello comunemente accreditato anche dai memoir di quelle sue prime fidanzate, prima di Baez la Suze Rotolo (Elle Fanning) della copertina di Freewheelin’ Bob Dylan. È misterioso, sarcastico, spesso sgradevole, insofferente della celebrità, amante fascinoso ma inaffidabile. Puro involucro senza palpiti, nella rappresentazione di Chalamet. Come se la recitazione si modellasse sulla regola enunciata dal suo personaggio: «Puoi essere bello o brutto, ma non puoi essere banale. Devi essere strano». I duetti con Baez-Barbaro spero favoriranno il ripasso di quelli veri. Ti viene voglia di rifugiarti nella magia domestica del vinile.

Macall Polay

Uno scandalo elettrico

Lo snodo cruciale verso cui gravita l’intero plot è ovviamente il 25 luglio del 1965, il Newport Folk Festival del "tradimento elettrico” o della dichiarazione di indipendenza, a seconda della prospettiva. Dylan ha 24 anni. Di lì a poco uscirà Highway 61 Revisited, un album miliare. Lo sguardo di Mangold è quello del libro di Wald: da una parte i dogmatici alla Seeger, una riserva indiana inchiodata al cliché “un-uomo-e-una-chitarra (rigorosamente acustica)”, dall’altra la libertà che in pochi minuti «decreta la fine del folk revival come movimento di massa e la nascita di un rock come matura voce artistica di una generazione».

A provocare non è solo il "rumore” ereticamente amplificato («make some noise, B.D!», lo esorta l’amico Johnny Cash). A provocare è anche il testo della elettrificata Maggie’s Farm: «I try my best/ To be just like I am/ But everybody wants you/To be just like them».  (Faccio del mio meglio/ Per essere come sono/ Ma tutti ti vogliono/Uguale a loro..).

Nel film Pete Seeger non stacca i cavi, come da leggenda apocrifa. E forse sulle rabbiose reazioni del pubblico pesa anche un primo set troppo breve, tre soli pezzi, lusso da superstar. Dovrebbe appassionare il "crescendo” finale, con Like A Rolling Stone e It’s All Over Now, Baby Blue, il ritorno sul palco in acustico. Ma non appassiona. Forse perché sospetti un semplicismo di comodo. C’era più polpa dietro lo “strappo”. Forse perché i documentari di Scorsese ti nutrono più generosamente della finzione. Dentro la pancia di mamma mio figlio si fece tutte le date italiane del Tour di Dylan 1984. Non per liturgia. Perché le good vibrations sono una cosa seria, un integratore prezioso. Davanti allo schermo le aspetti invano. Restano anche quelle like a complete unknown.

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