Il giorno prima dell’incidente, Radwan Tawam era seduto nel soggiorno di casa a Jaba quando il suo telefono squillò. Era suo zio Sami, proprietario di una piccola azienda di autoservizi in cui Radwan lavorava come autista. Gli domandò se gli andasse di accompagnare in gita i bambini della scuola di Nour al-Houda l’indomani mattina.

Radwan era molto legato a Sami, più che un nipote si sentiva un fratello e quando si trattava di dare una mano non si tirava mai indietro, ma in quel momento tentennò. Da casa sua, quasi in cima alla collina di Jaba, sentiva tirare un vento impetuoso e il cielo era pieno di nubi minacciose. Stava per arrivare un tremendo temporale, le strade locali non erano state progettate per affrontare un tempo simile.

Il giorno dopo, di buon mattino, Sami continuò a telefonare a Radwan, ma lui non rispondeva. Non si sarebbe lasciato convincere a guidare con quel tempo. Non era passato molto dall’ultima telefonata, tuttavia, quando Sami si presentò direttamente davanti a casa di Radwan, con un pullman malridotto da cinquanta posti che aveva già ventisette anni.

Sami scese dal pullman e oltrepassò gli ulivi e i fichi del cortile, perennemente coperti di polvere per le esplosioni nella vicina cava di calcare, poi bussò alla porta di Radwan. Radwan a malincuore accettò l’incarico.

La gita e l’incidente

ANSA

Si allontanò da casa al volante del pullman, insinuandosi lentamente tra le stradine in discesa di Jaba che affacciavano sulle terre della sua famiglia, i Tawam, confiscate per fare spazio alla colonia Adam. Durante la Seconda intifada, Israele aveva chiuso l’entrata principale di Jaba, bloccandola con cumuli di terra che a partire da allora erano diventati una barriera permanente.

Radwan e Sami per arrivare ad Anata dovevano per prima cosa prendere la direzione opposta, verso A-Ram, e poi tornare indietro fino al checkpoint su Jaba Road.

Una volta a Nour al-Houda Sami saltò giù dal pullman, dicendo a Radwan che aveva altre faccende da sbrigare. Radwan vide dei bambini in fila che aspettavano di salire su un altro pullman, anch’esso di Sami, che però da solo sarebbe stato troppo pieno.

L’autista fece quindi scendere alcuni bambini che erano già sul suo pullman perché salissero su quello di Radwan. Con quella pioggia e gli insegnanti alle prese con bambini zuppi e sovraeccitati che scendevano e salivano, a nessuno venne in mente di aggiornare le liste dei rispettivi passeggeri.

Gli alunni ammucchiandosi e spintonandosi superarono Radwan, con gli zaini troppo grandi per i loro piccoli corpi. Mentre il pullman si allontanava dalla scuola, dai finestrini si vedeva il muro di separazione.

Radwan accese il televisore appeso nel corridoio del veicolo e fece partire alcuni cartoni animati, in modo che i bambini guardassero quelli. Quando raggiunse il checkpoint di Jaba, la pioggia cadeva ormai fitta e faceva un gran chiasso.

Il pullman cigolante era lento, quindi Radwan restò sulla corsia di destra, così che gli altri veicoli potessero sorpassarlo mentre si faceva strada su per la collina. Alle 8:45, meno di un minuto dopo aver attraversato il checkpoint, l’autobus venne travolto da qualcosa di colossale. Radwan perse i sensi.

Tra le fiamme

Un video girato da un testimone mostra la scena negli ultimi minuti delle manovre di salvataggio, poco prima dell’arrivo delle ambulanze e dei pompieri. Nel video la gente si precipita verso l’autobus capovolto, ridotto a un telaio che brucia, mentre le fiamme rosse schizzano alte nell’aria e il cielo diventa nero per le grandi volute di fumo che si sollevano al di sopra del crepaccio. Si sente una donna gridare.

Qualcuno urla: «Dentro ci sono dei bambini!» Poi: «Estintori! Ci vogliono gli estintori!» Alcuni uomini recuperano dalle loro auto dei piccoli estintori, altri corrono con delle bottiglie piene d’acqua e le rovesciano nel fuoco senza sortire alcun effetto.

Le fiamme aumentano. Un tale cammina in cerchio con la faccia tra le mani. Un altro si dà dei colpi in testa. Un terzo si allontana di corsa dall’autobus con un estintore ormai vuoto e urla: «Dove siete finiti tutti? Buon Dio!» Dopodiché solleva l’estintore e lo scaglia a terra. Un piccolo cadavere giace sulla strada. «Copritelo, copritelo!» si fa sentire una voce, e poi: «Dove sono le ambulanze? Dove sono gli ebrei?».

Due uomini corrono trasportando un bambino. «È vivo! Presto! Bisogna farlo rinvenire!» Qualcun altro indica un adulto steso a terra. «Una macchina, veloci! Quest’uomo è vivo!» Una sagoma sfocata si allontana dall’autobus rapidamente, in braccio ha una bambina con dei fiocchi rosa sulle trecce. Sembra illesa, in una sorta di trance, e non risponde a quel tizio quando lui dopo averla posata le chiede: «Tutto a posto, piccola?»

Nelle immagini compaiono altri bambini, uno dopo l’altro, che vengono trasportati fino alle auto vicine. Dal fumo trapelano i lamenti.

I soccorsi e le scelte 

Nader Morrar fu il primo paramedico a raggiungere il luogo dell’incidente. Alle 8:54 aveva ricevuto una richiesta d’intervento per un pullman che si era ribaltato lungo Jaba Road. Chi lo aveva chiamato non era stato a dirgli se fosse vuoto o meno. A Nader quella tratta era nota, la «strada della morte».

Immaginava che le ambulanze israeliane sarebbero arrivate per prime, visto che la strada si trovava nell’Area C, quella parte di Cisgiordania che dopo gli accordi di Oslo era ancora sotto la giurisdizione della polizia stradale di Israele, così come dei suoi servizi di soccorso e del suo esercito.

Per raggiungere il posto da dove si trovava, la sede della Mezzaluna Rossa ad al-Bireh, Nader doveva attraversare il quartiere murato di Kufr Aqab. In caso di forti piogge poteva allagarsi fino a sommergere le auto. Poi più avanti c’erano il checkpoint di Qalandia e l’ingorgo sull’unica corsia che conduceva a est fino al luogo dell’incidente, in tutto erano poco più di sette chilometri. Con un tempo simile il viaggio sarebbe durato circa mezz’ora.

Con sua grande sorpresa gli ci vollero solo dieci minuti. Ancora più sorprendente era che non ci fossero servizi di soccorso israeliani in vista, e neanche militari e poliziotti. Quando Nader arrivò, la maggior parte dei bambini feriti era già stata evacuata con le automobili, ma questo lui non lo sapeva. Intravide della gente in cima alle pareti rocciose che incombevano sulla strada, persone che agitavano le braccia e gridavano. Alla sua sinistra c’era lo scuolabus ribaltato. Diversi corpi giacevano a terra.

«Incidente con alto numero di vittime» comunicò via radio alla sede della Mezzaluna Rossa, chiedendo rinforzi. Nader si muoveva con una certa difficoltà. Aveva studiato all’Università di Birzeit durante la Seconda intifada, quando Israele aveva chiuso la strada principale che portava all’istituto. Nel corso di una manifestazione di protesta per ottenere da Israele la riapertura di Birzeit, un militare aveva sparato a Nader nella gamba, provocandogli una frattura del femore.

Gli erano stati necessari due interventi chirurgici e un anno di riabilitazione per rimettersi, e aveva abbandonato la scuola. Ispirato dalla squadra medica che lo aveva soccorso, aveva iniziato a studiare per diventare paramedico. Dieci anni dopo, mentre già lavorava per la Mezzaluna Rossa, era stato colpito di nuovo alla gamba dai militari israeliani.

Non appena scese dall’ambulanza la gente si precipitò da lui perché si occupasse dei morti. Il fuoco ormai era così intenso che non c’era più modo di avvicinarsi all’autobus. Due adulti erano stesi sull’asfalto, entrambi a quanto pareva avevano ustioni di terzo grado e respiravano a fatica. Erano un’insegnante e Radwan, l’autista del pullman, che aveva riportato fratture multiple ed era gravemente ustionato. Nader e il conducente della sua ambulanza li caricarono per condurli via all’istante.

L’unica opzione era portarli a Ramallah, perché in effetti se avessero tentato di andare a Gerusalemme avrebbero sprecato tempo prezioso o addirittura perso un paziente, aspettando al checkpoint il permesso per trasportare le vittime su una barella fino a un’ambulanza israeliana dall’altra parte.

Secondo Nader, di fronte a un’emergenza tutti i vari status giuridici dei palestinesi diventavano irrilevanti. L’unica cosa a contare era se i pazienti fossero palestinesi o ebrei. Non avrebbe mai potuto, in nessun caso, portare un ebreo in un ospedale palestinese.

Aveva portato però dei palestinesi con cittadinanza israeliana negli ospedali della Cisgiordania e, per ciò che ne sapeva, in quel momento ne stava trasportando altri due. Mentre l’ambulanza sfrecciava verso il centro medico di Ramallah, superando a sirene spiegate il checkpoint di Qalandia, Nader si occupò sia di Radwan che dell’insegnante, somministrando loro ossigeno, bloccando le emorragie e cercando di restare concentrato nonostante le urla.


Il testo è un estratto di Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme

© 2023 Nathan Thrall

Published by arrangement with Metropolitan Books, an imprint of Henry Holt and Company, New York, and The Italian Literary Agency.

© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza

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