End of cheers: l’inarrestabile crisi dei pub

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. «Quando chiude un pub le persone perdono il lavoro, le comunità vengono private del loro cuore e della loro anima e l’economia locale ne risente». Emma McClarkin, amministratrice delegata della British and Beer and Pub Association, rappresenta più di 20mila pub nel Regno Unito. È la sua organizzazione a lanciare l’allarme: in Gran Bretagna i pub stanno chiudendo al ritmo di uno al giorno. Per quest’anno, tra Inghilterra, Galles e Scozia è prevista la chiusura di 378 gli esercizi, vanificando 5.600 posti di lavoro. L’emorragia però è tutt’altro che nuova, il fenomeno va avanti da tempo. Dai 60.800 pub di inizio secolo si è passati ai 45mila del 2024, segnando una perdita di 15mila locali in meno di venticinque anni. A dicembre scorso, quando i locali che hanno abbassato la saracinesca o che hanno riconvertito la loro attività ammontavano a 412, per la prima volta nel Regno Unito i pub erano scesi sotto quota 39mila. Un dramma non soltanto economico, ma anche culturale considerata la tradizione che lega i britannici al bancone. Compreso il primo ministro Keir Starmer. Prima di insediarsi a Downing Street il leader laburista aveva un appuntamento fisso al Pineapple di Kentish Town, nel suo quartiere nel nord di Londra, specialmente durante le trasferte dell’Arsenal che non gli permettevano di professare da vicino la propria fede calcistica. Ed è a lui che si appella McClarkin. «Non è troppo tardi per cambiare questa triste situazione. Sappiamo che il governo riconosce il valore economico e sociale dei pub e non stiamo chiedendo un trattamento speciale, vogliamo solo che venga liberato il ricco potenziale del settore». Lo stesso che contribuisce all’economia britannica con 30 miliardi di sterline e che paga tasse per 18 miliardi. Le birre che hanno dissetato l’Europa: viaggio tra gli stili a bassa gradazione Tanti fattori, un solo risultato: più costi per tutti Per capire come i pub britannici siano finiti in questa crisi senza fine bisogna unire un po’ di fattori. Gli stessi che negli ultimi cinque anni riguardano gran parte delle persone. Il Covid-19 è stato un cigno ancor più nero per chi lavora nell’ospitalità, non per niente per i lockdown che costringevano a rimanere in casa. A complicare ancor di più le cose c’è stata poi la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, che ha contributo a far impennare il prezzo dell’energia. Non solo quelli, visto che l’inflazione ha alzato il costo della vita in maniera drastica. «L’assicurazione nazionale è aumentata, le aliquote fiscali sulle imprese sono aumentate e, ovviamente, per mantenere invariato il livello dell’Iva significa che un’azienda come questa deve trovare circa 30mila sterline in più all’anno», affermava alla Cnbc il titolare del Devonshire Arms, nel centro di Londra. Non è l’unico che deve far fronte a questi problemi. «Credo fermamente che il pub sia il centro della comunità e quando l’ho comprato ho detto che mai avrei venduto l’attività. Ma la bolletta dell’elettricità è raddoppiata negli ultimi sei mesi: dove troverò i soldi per pagarla?”, raccontava la proprietaria del King’s Head a Pollington, nello Yorkshire. La conseguenza diretta dell’aumento dei costi di gestione va trovata nelle tasche dei clienti. Se prima del coronavirus i prezzi subivano rialzi una tantum, dopo la pandemia sono diventati ciclici. Vedere per credere: nel 2000 il costo medio di una pinta era 1,90 sterline, nel 2010 era di 2,80 sterline e nel 2024 era di 4,5 sterline. A breve dovrebbe superare quota 5 pound – che per noi rientra nella media, ma abbiamo una differente concezione del consumo di birra. Una tassazione da incubo Non bastasse, c’è un altro problema che grava sulle spalle dei pub. L’accisa sulla birra messa dal Regno Unito è una delle più alte in Europa: circa 60 penny (centesimi) per quelle alla spina, 55 penny per quelle in bottiglia. Solo quella della Finlandia è superiore, ma il paese scandinavo fa un campionato a parte con un’imposta che ammonta a 93 pence. La media del continente si attesta a poco meno di 20 penny, molto al di sotto del livello britannico. Parliamo di birre con una gradazione non superiore ai 5 gradi e ovviamente la tassazione si alza o si abbassa a seconda del tasso alcolemico. Seguendo il sistema entrato in vigore due anni fa, che aveva l’obiettivo di educare a un consumo responsabile dell’alcol, l’accisa viene applicata agli alcolici con una gradazione superiore all’1,2 per cento e l’aliquota sale ad ogni 0,1 per cento in più. Per arrivare al costo di una pinta, insomma, bisogna sommare le tasse sulla birra (in media 50 penny) e altre piccole imposte, l’Iva (80 penny) e vari costi (poco meno di 330 penny). Da inizio febbraio, qualcosa – molto poco - è però cambiato. Per le spine che hanno una gradazione inferiore all’8,5 per cento c’è stata un taglio delle accise dell’1,7 per cento, ovvero un penny in meno per una pinta di media gradazione. Per le bevande non alla spina invece la tassa è aumentata del 3,6 per cento per fa fronte all’inflazione, mentre era stata annunciata la fine del periodo agevolato in cui per i vini di gradazione compresa tra l’11,5 per cento e il 14,5 per cento veniva richiesta un’aliquota fissa di 2,67 sterline. Adesso, per ogni 0,1 per cento grado in più si dovranno pagare 2 penny. Ma l’idea è che, siccome le birre alla spina rappresentano il 60 per cento dei consumi di un pub, la nuova aliquota fiscale potrebbe far respirare un po’ i proprietari. Oltre le dark kitchen: il futuro sono i food corner? I diretti interessati non la pensano affatto così e mostrano tutta la loro delusione per un intervento che non risolve i problemi per cui chiedono un intervento forte e deciso, che corrisponda alla sua gravità. «Il governo continua a sostenere che gli aumenti delle tasse fanno parte del loro piano per tappare il buco nero nelle finanze pubbliche, ma una serie di imposte da record sta facendo esattamente l’opposto», affermano dalla Wine and Spirit Trade Association, convinti che in questo modo «le società vengono schiacciate e i consumatori devono pagare di più». Insoddisfatto anche la Night Times Industry Association, che critica queste azioni «inutili per le aziende già sotto pressione a causa dell’aumento dei costi e delle tasse». A Downing Street hanno provato qualche soluzione, come quella di finanziare le associazioni che supportano i locali, tra cui Pub is The Hub, e la concessione di nuovi poteri al sindaco di Londra affinché riveda le licenze per far sì che la vita notturna della City riparta. Offrendo la possibilità di consumare all’esterno e permettendo ai locali di rimanere aperti fino a tarda notte, si spera che gli incassi possano migliorare. Si è cominciato l’8 maggio, nel V Day, per celebrare la vittoria nella seconda guerra mondiale. Per quella sera, le saracinesche si sono abbassate all’una di notte affinché chiunque potesse «brindare a tutti gli uomini e le donne che hanno servito il loro paese, sia all’estero che in patria», affermava Starmer. Stessa misura era stata presa per la finale di Euro2024 e in occasione dell’incoronazione di Re Carlo III. Da vedere se trasformandola nella regola possa rendere la pressione meno insopportabile per i pub d’Oltremanica. [Missing Caption][Missing Credit]