«Alla fine, ispetto’, domani già è estate, ’st’anno il tempo è volato proprio. No?». Igor Cavalera stringe gli occhi come se volesse stritolare qualcosa tra le palpebre, non risponde al collega che è alla guida, si slaccia un bottone della camicia della divisa sudata e prova a non pensarci: prova a concentrarsi soltanto sul suo essere sveglio da troppe ore. Ma non riesce a governare la nausea che lo prende ogni volta che nella mente gli si affaccia l’idea dell’imminente futuro: a partire dai primi di luglio, Caposelli sarà invasa da orde di turisti, la cittadina che d’inverno conta meno di ventimila abitanti si ritroverà a ospitare oltre un milione di persone, principalmente giovani che scelgono il Salento per saziare la loro sete di alcol e la loro bramosia di sesso facile.

Come da dieci anni a questa parte, anche questa estate sarà, per il luogotenente Igor Cavalera, sinonimo di delirio lavorativo, di telefonate a qualsiasi ora, di pericolo costante. L’uomo, sempre più sudato, prova a non pensarci, prova a dirsi che ha ancora qualche giorno prima dell’esplosione turistica: qualche giorno per dormire decentemente. Prova a pensare all’inverno, che lui ha sempre amato, forse per una qualche caratteristica proveniente dal sangue russo di sua madre: Caposelli d’inverno è per tutti una terra morta e inutile, ma per lui è un luogo di pace e perenne meraviglia, in quel girovagare tra le stradine del centro storico mentre tutti i negozi sono chiusi, mentre le luci gialle illuminano la pietra delle case bagnata di umidità, mentre tutto è un silenzio svuotato dagli echi delle folli bolge estive.

Prova. Non serve a niente.

Un malessere acido gli serpeggia nelle viscere.

E continua a pensare a tutto questo, mentre l’auto su cui viaggia scorre lenta lungo la litoranea immersa in una notte che sa ancora di primavera: una striscia d’asfalto che divide le pinete dalle spiagge, una strada dritta, perennemente sottoposta a inutili lavori di manutenzione, spoglia di qualsiasi illuminazione elettrica a causa di un’amministrazione comunale che in modo spietatamente cinico è intenzionata a incentivare lo spaccio lungo la costa del malsano divertimentificio che Caposelli è diventata.

Pensa a tutto questo, Igor Cavalera, mentre si immagina nel suo letto, finalmente, tra poco, quando il suo turno finirà, davanti al televisore che trasmette un film o una serie tv, facendolo astrarre dal mondo per almeno una manciata di ore. Non ascolta le voci dell’appuntato Caiffa, che guida l’auto, e del brigadiere Scigliuzzo, che dal sedile posteriore gracchia: «Matò, comunque l’abbiamo fatto proprio cacare addosso, quel coglione di prima», e Caiffa risponde con un risolino stridulo.

Omuncoli

Cavalera detesta i suoi colleghi. Non solo Caiffa e Scigliuzzo. Li detesta tutti. Piccoli omuncoli che rubacchiano lo stipendio, sadici nel costante abuso di potere, proni davanti ai favori chiesti da quel politico o da quell’imprenditore. Umanamente, agli occhi di Cavalera, si tratta di persone terribili con le quali non avrebbe mai avuto a che fare se la sorte non lo avesse posto in quel contesto che a lui sembra del tutto estraneo. Tra loro, ovviamente, nessuno con cui poter parlare – nemmeno in modo superficiale – del cinema, la sua grande passione. Nessuno: attorno a lui, da quando fa questo lavoro, soltanto un’umanità gretta, spenta, e in qualche modo primordiale. La cittadinanza teme i Carabinieri, teme la spietatezza umorale di queste forze dell’ordine che negli anni hanno assunto una fisionomia inutilmente crudele – spacciandola per rigore o legittima severità, stringendo il paese in una maglia di costante reverenza mista a un perenne stato di emergenza.

L’abitacolo della macchina diventa asfissiante, mentre Caiffa e Scigliuzzo continuano a ridere come due iene grottescamente antropomorfe. Stanno commentando il posto di controllo appena concluso. Poco fa, in una Caposelli notturna pre-turistica e dunque ancora deserta, hanno incrociato soltanto un ragazzo in scooter. Un pasticciere, aveva appena finito il suo turno di lavoro. Caiffa e Scigliuzzo hanno accese le sirene, lo hanno fatto accostare. Si sono accaniti su di lui, con la solita accusa di avere addosso della droga – in un copione già scritto, con battute come «Dai, cretino, tira fuori quello che c’hai addosso» e risposte tremanti del malcapitato di turno, «Ve lo giuro, non ho niente».

Lo hanno fatto spogliare nudo, lasciandolo in mutande in mezzo alla strada. Cavalera, rimasto in auto, non ha fatto nulla per impedire quella inutile umiliazione. È rimasto lì, guardando il corpo pallido del pasticciere (i suoi occhi sconvolti, le dita affusolate che provavano a coprire la sagoma delle parti intime) e i due colleghi, ridicole figure che sembrano uscite da un vecchio film trash, Scigliuzzo alto e scheletrico, Caiffa basso e grassoccio, Scigliuzzo con la voce da uccellaccio isterico, Caiffa con un affanno costante causato dai troppi carboidrati.

Da anni, ormai, Cavalera ha imparato che se intervenisse si ritroverebbe a pagarne le conseguenze: i suoi sottoposti hanno molta più influenza di lui presso il Comando centrale, grazie a una fittissima rete di favori attuati sottobanco in anni e anni di disonorevole servizio. Ogni volta che Cavalera ha provato a fermare la spirale di stupido terrore messo in atto dai suoi colleghi ne ha ottenuto soltanto richiami – tutt’altro che morbidi – dal Comando provinciale.

«Mò se la ricorda per un po’ di tempo, ’sta nottata», dice Scigliuzzo, aggiungendo un sospiro rilassato. «Pasticciere di ’sta minchia», commenta, scoppiando ancora a ridere, Caiffa.

Cavalera abbassa il finestrino per farsi colpire il volto dall’aria fresca e dolce della notte.

Luogo caro

Il profumo del mare è forte e piacevole. In lontananza una striscia di luce comincia a farsi largo nel cielo. Osserva la spiaggia. La sente come un luogo caro. Vorrebbe parlarle, a quella lingua di sabbia, dirle: «Non preoccuparti, tra pochi mesi tornerai a essere così, pulita e fresca, perfetta per affondarci i piedi stanchi». Non riesce a non fare il solito pensiero: «Se solo avessi dato ascolto a me stesso, e non a mia madre, vent’anni fa». Ora probabilmente sarebbe sempre lì, vicino a quella spiaggia, sì, ma con una cinepresa in mano, circondato da una troupe, per girare un film ambientato nella sua terra d’origine. Sua madre sarebbe stata scontenta, amareggiata per non avere un figlio sistemato con il posto fisso. Ma lui sarebbe un diplomato all’Accademia di Regia di Lecce, e il cinema sarebbe diventato il suo lavoro, non soltanto uno sfogo nelle poche ore di riposo da una vita ansiogena e frenetica. Probabilmente sarebbe anche meno solo. Forse avrebbe qualcuno da salutare quando torna a casa, non soltanto la sua immagine stanca riflessa in uno specchio a muro che non viene spolverato da troppo tempo.

La luce che contorna l’orlo del mare cresce lentamente. Perso nei suoi pensieri, con gli occhi puntati oltre l’asfalto e verso il mare, Cavalera è all’improvviso colto da una sorta di scossa, come se qualcosa facesse interferenza nel rapporto tra lui e il mondo: davanti a sé, tra la penombra scorrevole della spiaggia, vede qualcosa che, senza alcun apparente motivo, gli fa scorrere un brivido lungo la spina dorsale.

«Scigliuzzo, rallenta», dice al collega al suo fianco. Stringe gli occhi e guarda un punto sulla battigia. C’è qualcosa. «Anzi, fermati proprio. Fammi scendere».

«Ma che hai visto, ispetto’?», chiede Scigliuzzo mentre ferma l’auto.

Cavalera non risponde. Al suo posto lo fa Caiffa: «C’è qualcuno là sotto, sulla spiaggia. Guarda, Scigliù. Saranno due che scopano».

«Minchia, Caì, questa è ’na bella multazza, sicura sicura», sogghigna Scigliuzzo.

«E infatti, compà, con cazziatone annesso pure», esclama Caiffa, mentre scende dall’auto caracollando nei suoi 130 chili.

L’ispettore Igor Cavalera intanto ha già preso le scalette che dalla strada portano verso la spiaggia. E a ogni passo i suoi occhi ricostruiscono con esattezza ciò che ha davanti. A ogni passo il brivido lungo la spina dorsale si fa più feroce. Fino a diventare quasi doloroso.

Si ferma, a pochi passi dalla persona stesa. È scomposta, in modo innaturale.

Alle sue spalle sente arrivare, ansimante, Caiffa: «Ispetto’, ma... che cazzo è?».

Cavalera non risponde. Si sente stanco. Come non lo è mai stato.

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