Come vola il tempo quando non ci si diverte. Mi sembra ieri che preparavo i bloody mary più tristi del mondo per berli insieme ai miei amici collegati su Zoom. Se ci penso adesso mi sembrano i ricordi di qualcun altro. Eppure ci risiamo: dalla cucina mi arriva il profumo di una pizza casereccia, ho le braghe della tuta infilate nei calzini e non sto uscendo di casa da dieci giorni. Stai calma, direte voi, ancora è presto per panificare. Ma mentre si paventa una nuova chiusura, io mi sono messa avanti. Un po’ per paranoia, ma più che altro per cause di forza maggiore. Qualche giorno fa, infatti, mi è arrivata una notifica di Immuni, di cui francamente avevo rimosso l’esistenza. Per chi non lo sapesse (cioè per chi si fosse perso l’esilarante resoconto di Chiara Galeazzi, notificata in agosto) Immuni funziona così: il tuo telefono registra la vicinanza degli altri utenti con cui ti trovi a contatto entro i due metri per almeno quindici minuti e lo fa con un sistema di codici autogenerati che non ho capito ma che è pensato per tutelare la privacy di chi usa l’app. Se un utente risulta positivo al Covid-19 fa una segnalazione e Immuni informa tramite nefasta notifica tutte le persone che hanno incrociato i codici dell’appestato nei giorni precedenti. Quando ricevi la notifica di esposizione a rischio lo comunichi all tuo medico, che a sua volta lo comunica all’Asl della tua città, che ti contatterà per spiegarti cosa fare.

La prima reazione

Nel mio caso erano passati dieci giorni dal rischio di contagio e a quel punto era un po’ come mettere il preservativo dopo un rapporto sessuale. In quei dieci giorni avevo visto chiunque, avevo sputacchiato goccioline potenzialmente infette in faccia a diversi amici, smanacciato superfici in case altrui, limonato col fidanzato. Travolta da un improvviso senso di colpa, comincio a telefonare a tutti cercando di rassicurare loro ma soprattutto me stessa. Chiamo il mio medico, con cui non ho molta confidenza perché l’ho visto solo due volte e in entrambe le occasioni ha cercato di suggerire che ogni mio problema fosse dovuto alla pillola contraccettiva, che dovrei smettere di assumere perché tanto ho l’età per figliare. In entrambe le occasioni mi ha prescritto esami del sangue per la toxoplasmosi, molto pericolosa per le donne incinte. «Ho ricevuto una notifica di esposizione a rischio da Immuni» gli dico, sicura che mi consiglierà di fare un test di gravidanza. Inizialmente sembra confuso dall’esistenza di Immuni, «provi a spiegarmi» mi dice. Ripeto il concetto mescolando l’ordine delle parole come Yoda. A quel punto capisco che ha capito, lo sento battere sulla tastiera del computer e mi fa delle domande pertinenti, nessuna delle quali sulla mia salute riproduttiva. Mi dice che sono nel sistema, che mi contatterà l’Asl. Mi saluta senza convenevoli e un po’ mi sento offesa dalla totale mancanza di trasporto con cui è avvenuta l’operazione, ma forse sono io che ho aspettative irrealistiche perché ho visto troppe stagioni di Grey’s Anatomy. Però neanche una dichiarazione d’amore, neanche un elicottero mandato a prelevarmi.

Mi chiudo in casa e nei giorni successivi comincio a sospettare che tutto sia sintomo di Covid-19. Eccolo qui, me lo sono presa, penso svaccata sul divano massaggiandomi la pancia gonfia e dolorante, dopo aver mangiato un chilo e mezzo di castagne. Intanto penso alla trama di una commedia romantica, in cui la giovane protagonista inizia una ricerca spasmodica dell’utente positivo che le ha fatto arrivare la notifica, convinta che sia un segno dall’universo, che l’amore della sua vita la sta aspettando, solo per scoprire che invece era un cinquantenne che urla al telefono sui mezzi pubblici e non si copre il naso con la mascherina. Condivido lo spunto narrativo con il mio ragazzo che mi risponde che forse è meglio se stiamo in stanze separate d’ora in poi. Sai, il Covid.

L’Ats

Dall’Ats di Milano mi chiamano dopo cinque giorni. Sui giornali sono già usciti diversi pezzi sul collasso dei sistemi di tracciamento (i numeri dei contagi, soprattutto qui a Milano, continuano a crescere), quindi avevo perso ogni speranza. Invece una ragazza molto gentile mi telefona e mi comunica che avendo superato i 14 giorni di quarantena senza sintomi, pancia gonfia a parte, posso stare tranquilla e non fare niente, il mio caso è archiviato. Ormai però è troppo tardi, sono rientrata in modalità quarantena e tutto mi dice che farei bene a restarci. Tuttavia al quindicesimo giorno, il primo di libertà autorizzata, mi decido a fare un giro fuori perché il contapassi dell’iPhone ha registrato una media di 27 passi nei giorni precedenti – dal divano al bagno, dal bagno al divano al letto – e me ne vergogno. Non faccio in tempo a girare l’angolo che pesto una merda di cane e in un momentaneo afflato metaforico accolgo l’incidente come un messaggio divino: ma dove pensavi di andare, ma stai a casa. Mentre torno indietro raschiando la scarpa sul marciapiede e pensando alla trama di una commedia romantica in cui la giovane donna che ha pestato la merda va alla ricerca del padrone del cane che ha prodotto quella specifica merda, realizzo che tanto vale mettersi il cuore in pace, ne avremo ancora per un po’.

Per quanto mi riguarda la prendo con filosofia. Per anni, tra ottobre e marzo, non ho desiderato altro che una buona scusa per non uscire di casa. Con sollievo rimando il cambio di stagione dell’armadio a data da definirsi, tanto non dovrò vestirmi a breve. Mi compiaccio ancora una volta di non essermi iscritta in palestra e fisso intensamente lo stepper che ho comprato durante la prima quarantena, nella speranza che per eliminare le culottes de cheval basti il pensiero, abbinato a una buona crema corpo. Magari a questo giro lo userò davvero quello stepper, magari eliminerò le culottes de cheval. Forse la seconda quarantena, come le seconde occasioni, servirà proprio a questo. Abbiamo la possibilità di fare meglio. Siamo pronti stavolta, sappiamo che non abbiamo motivo di fare scorta di carta igienica. Ci saremo stancati di cantare dal balcone, dell’ottimismo, dei “ne usciremo migliori”: a questo giro siamo disincantati, sappiamo che non ne usciremo né a breve né tantomeno migliori. Un po’ è un peccato, amavamo l’aura epica della prima quarantena, sentirci eroi sul divano di casa con dodici piattaforme di streaming a disposizione. I sequel, si sa, sono sempre una delusione e la pizza riscaldata non è mai tanto buona.

Se la prima quarantena mi sembra il ricordo di qualcun altro, l’estate appena passata è stato frutto della mia immaginazione. Ero davvero io quella con i piedi a mollo nel mare di Capri? Era forse una mia sosia quella che si scofanava la pasta con le alici a Cetara? Chi era la ragazza abbronzata di bianco vestita che passeggiava per Matera? Il caldo ci ha confuso le idee, il sole ci ha abbacinato gli occhi, gli scrupolosissimi albergatori campani ci hanno illuso che finché avevamo una colonnina di gel igienizzante ogni due metri eravamo salvi. Purtroppo non è bastato e ora siamo punto e accapo. Spaventati, annoiati, arrabbiati, malvestiti. L’inverno milanese si preannuncia più mesto del solito, ma per fortuna, come direbbe Vincenzo Salemme a Tosca D'Aquino in un remake amalfitano di Casablanca, avremo sempre Cetara.

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