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Durante i primi mesi della pandemia, bloccato in una piccola isola nel sud-est asiatico, non ho scritto una parola. Fotografavo. E solo oggi capisco che in quelle immagini riversavo la mia inquietudine di fronte agli eventi.
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Fotografare non era mai stata una mia priorità, eppure adesso mi pareva diventato indispensabile.
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In prossimità del tramonto andavo a passeggiare e scattavo. Gli alberi, le abitazioni, le attività commerciali, la strada. In sostanza fotografavo paesaggi e sempre orientando l’obiettivo in senso verticale. Anche questa era una stranezza, pensandoci.
Durante i primi e affannosi mesi della pandemia, che ho trascorso bloccato in una piccola isola nel sud-est asiatico, non ho scritto una sola parola. Essendo il mio mestiere, almeno in teoria, e vedendo altri scrittori (e non solo scrittori) riversare fiumi di pensieri e impressioni su giornali e social, mi chiedevo se non ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Dall’Italia arrivavano immagini da apocalisse, non si sapeva se il mondo sarebbe continuato o no e io non sentivo alcun bisogno di espri



