Guardare alla storia, agli insegnamenti degli avvenimenti di ieri, non per cercare nostalgicamente i riflessi di un tempo migliore, bensì per cogliere le lunghe radici di fenomeni che scuotono l’attualità e chiedono una risposta che non sia contingente e transitoria, ma capace di incidere sui nessi strutturali da cui generano.

Quest’anno ricorre il centenario della “domenica di sangue” di Bolzano, una data che rappresenta l’occasione, ancora inquieta, di pensare a un nuovo patto sociale – per una cittadinanza più inclusiva – laddove le diversità devono convivere in uno spazio stretto, tornando su un momento tragicamente segnato dalle violenze fasciste contro la comunità tirolese.

24 aprile 1921

Il 24 aprile 1921, giorno di apertura della Fiera di primavera di Bolzano, circa 400 squadristi guidati da Achille Starace – già fondatore dell’unica sezione dei fasci di combattimento presente nella provincia di Bolzano istituita poco più di due mesi prima, il 19 febbraio 1921 – attaccarono una sfilata in costume tirolese. Fu, per l’appunto, la “domenica di sangue” (in tedesco Blutsonntag o Bozner Blutsonntag), un’aggressione a colpi di arma da fuoco che scompaginò la manifestazione. Cinquanta degli altoatesini presenti furono feriti. Franz Innerhofer, un maestro elementare venuto dal comune di Marlengo insieme ai suoi studenti per l’occasione della fiera, venne ucciso.

Il 25 aprile 1921 Il Popolo d’Italia dedicava un articolo ai fatti di Bolzano: «Lassù c’era da ozonare l’atmosfera, da sbattere oltre Brennero i mestatori e gli intrusi, da fondare asili e scuole italiane, da favorire onestamente i connazionali, da mantenere un ferreo governo militare fino alla completa liquidazione delle mene pangermanistiche, dei plebisciti tirolesi».

In un contesto caratterizzato da una minoritaria presenza di italiani – pari a circa l’8 per cento della popolazione residente nel territorio provinciale – l’adesione alle prime espressioni movimentiste del fascismo era stata molto limitata e di conseguenza anche la capacità organizzativa e l’incisività dello squadrismo. I fascisti cooptati nell’operazione del 24 aprile erano infatti per lo più provenienti dalle regioni limitrofe e furono diretti dal comitato centrale dei fasci di combattimento di Milano.

Ancora prima che il movimento fascista assumesse la forma di un partito, l’aggressione squadrista si faceva portavoce di un ideale di autorità “alternativo” a quello istituzionale, che proponeva interventi ben più drastici e violenti di cui il governo liberale era considerato incapace.

 

Il senso di un’appartenenza

La sovranità dello stato italiano faticava ad attecchire in questa provincia di nuova annessione dove all’indomani del 10 settembre 1919 (trattato di Saint Germain) la popolazione a maggioranza tedesca si trovava a dover accettare di essere diventata di fatto una minoranza linguistica nazionale del Regno d’Italia.

Il corteo in abiti tradizionali sudtirolesi, organizzato in occasione della riapertura della Fiera di primavera dopo il fermo imposto negli anni di guerra, cadeva tra l’altro in una significativa coincidenza con un plebiscito che chiedeva l’annessione del Tirolo alla Germania. Le consultazioni popolari contravvenivano alle disposizioni del trattato di pace il quale limitava nei territori tedescofoni, sottratti a Germania e Austria, l’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli. La filiazione tra Tirolo del sud ed ex madrepatria austriaca caratterizzava quegli anni di riassetto politico amministrativo in cui si andava affermando una politica di difesa dell’elemento tedesco, promossa dalla nascente federazione Deutscher Verband: il punto di riferimento per le minoranze linguistiche germanica e ladina del Sud Tirolo, fondata nel 1919 in seguito all’annessione italiana.

Le pagine dell’Avanti! ci restituiscono il riverbero che questi avvenimenti del 24 aprile avevano generato nella capitale austriaca: la sede del consolato italiano a Innsbruck era stata assediata per tutta la notte da una folla di manifestanti e dei tafferugli si erano verificati in un caffè tra alcuni manifestanti e degli avventori italiani.

La Fiera di primavera offriva alla comunità di lingua e cultura tedesca un’occasione per rivendicare il proprio senso di appartenenza e di alterità culturale, minacciata dagli stravolgimenti di politica internazionale. La scelta di sfilare in abiti tradizionali si può leggere come un’espressione di lealtà etnica – un’occasione per posizionarsi nettamente – in un contesto attraversato da evidenti tensioni di carattere identitario e in cui, per usare le parole di Alexander Langer, di «occasioni per schierarsi – da un punto di vista etnico – se ne trovano sempre, o se ne creano di apposite».

La reazione squadrista

Il movimento fascista aveva recepito da questa manifestazione un contenuto di sfida e perciò reagì con una modalità d’intervento tipicamente squadrista: applicando la stessa violenza fascista organizzata messa in campo in chiave repressiva, a partire dall’autunno del 1920, soprattutto in quelle zone d’Italia che avevano aderito al Biennio rosso. La partita in questo caso però si giocava sul terreno scivoloso dell’identità e chiamava in campo da entrambe le parti la percezione di un rischio di snazionalizzazione e di assimilazione culturale. In questa dinamica l’intervento di repressione squadrista, che ufficialmente muoveva contro delle presunte «tendenze pangermaniste», andava ad assumere un connotato patriottico ma al contempo anche antigovernativo, diretto contro i liberali al governo tacciati come responsabili.

I fatti di Bolzano tradiscono quell’assenza di mediazioni che avrebbe caratterizzato la gestione mussoliniana dell’annessione territoriale sudtirolese, e sono sintomatici della politica assimilatrice che l’Italia fascista attuò nei territori esteri colonizzati. A differenza della cautela dimostrata dai governi precedenti, quello fascista in Alto Adige rivendicò simbolicamente un ruolo di madre patria civilizzatrice, come testimonia il dibattuto e ancora inquieto monumento alla Vittoria su cui troneggia l’iscrizione: «Qui [sono] i confini della Patria. Poni le insegne! Da qui educammo gli altri alla lingua, al diritto, alle arti» (in latino: «Hic Patriae fines siste signa hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus»).

Il monumento, terminato nel 1928 a firma dell’architetto Marcello Piacentini, scriveva Alexander Langer, marca con la sua presenza lo spazio urbano, rafforza la percezione dell’identità – specie se etnica – e funziona come strumento di contrapposizione, ricordandoci oggi l’interdizione a politiche più rispettose nei confronti di minoranze linguistiche e culturali.

© Riproduzione riservata