Fu Pippo Baudo, se non sbaglio, a rivendicare (dopo un epico scontro col socialista Enrico Manca) la definizione di «nazional-popolare» per il festival di Sanremo. Se il povero Gramsci ricevesse mille euro ogni volta che viene citato a sproposito, a quest’ora là dove si trova sarebbe milionario.

Per Gramsci cercare una cultura «nazionale e popolare» significava trovare un punto di contatto tra intellettuali e popolo fondato sulla consapevolezza da entrambe le parti di dover imparare qualcosa.

In quel rito folkloristico e commerciale che è il Festival si è sempre confuso il “popolare” con il “famoso tra la gente comune”: la sagra è quella degli ascolti, dunque bisogna dare alle masse quel che le masse si aspettano, quello che sanno già, nessun reciproco scambio è previsto.

Soprattutto quest’anno che (sarà per i 70 anni della tivù) l’aria è particolarmente celebrativa e sono tutti lì che se la cantano e se la suonano, l’idea dominante tra gli autori è di mantenere a tutti i costi gli spettatori in una zona di comfort. Dunque se c’è da suonare un’aria d’opera sarà il Va pensiero, a John Travolta si chiederà di accennare alla Febbre del sabato sera (per non parlare di trovate più penose), a Russell Crowe si farà dire (in italiano) «al mio segnale scatenate l’inferno», da Casadei si pretenderà Romagna mia e da Morandi C’era un ragazzo che come me. Ogni tema col suo cartellino stereotipo sopra, nessuno si sforzi per carità.

La bolla dell’Ariston

Il palco dell’Ariston è una bolla in cui tutti si vogliono bene: i giovani si dicono onorati di presentare gli anziani, gli anziani raccomandano ai giovani di non guastarsi crescendo. Il punk più che trasgressivo è modaiolo, la fluidità sessuale o gli accessori genderless non fanno più scandalo: se ancora Achille Lauro pochi anni fa creava sconcerto nei benpensanti, ora l’orecchino vistoso di Alessandro De Santis, o il fascino indiscutibile di Mahmood con una spalla scoperta, comunicano soltanto che la bellezza è bellezza.

Poi ci sono i tentativi di insegnare qualcosa, le parole che si vogliono “impegnate”. Qualcuno (Dargen D’Amico, Ghali) invoca il cessate il fuoco a Gaza con sottintesa la crudeltà della destra ultraortodossa israeliana; ma presto l’esempio si diffonde e altri (Ramazzotti, Sangiorgi) invocano semplicemente la “pace” – come si fa a non essere d’accordo ?

È importante distinguere l’impegno dalla retorica vuota e inoffensiva. La seconda, direi, si manifesta quando chi parla usa parole risapute che fatalmente faranno scattare l’applauso. Se Teresa Mannino, spiritosa, organizza un piccolo tutorial sulla società matriarcale delle formiche tagliafoglie (che eliminano i maschi appena hanno adempiuto al loro dovere di inseminatori) e chiosa «come sono avanti!», lo sa che in quel contesto la sua battuta sta stuzzicando una estemporanea maggioranza – che chiunque tra il pubblico sarà costretto a sorridere se no verrà guardato male.

Edoardo Leo assicura che «la satira è sempre una critica alle classi dominanti», ma certe volte accade che anche il comico aggredisca un antico e radicato privilegio mediante un luogo comune di recente formazione. Mannino si è salvata con l’esagerazione ironica, scherzando su teorie estreme alla Valerie Solanas.

La forma decide tutto

Molto sul serio si è invece presa Fiorella Mannoia nella sua Mariposa: «Sono una strega in cima al rogo/ una farfalla che imbraccia il fucile». A un certo punto il testo dice «mi chiamano con tutti i nomi/ tutti quelli che mi hanno dato»; eh sì, i maschi scrittori glieli hanno dati, lei prova a svincolarsi appropriandosene con orgoglio ma l’elenco para-surrealista è una vecchia forma, e l’inno di liberazione suona come una conferma tra persone che già sono d’accordo.

La forma, come al solito, decide tutto: per esempio il testo di teatro-canzone L’uomo nel lampo, portato in scena da Paolo Jannacci e Stefano Massini, parla della morte sul lavoro in termini non usurati e dunque commoventi; come era commovente il dolore di Giovanni Allevi per gli accenni di convincente quotidianità con cui Allevi stesso lo ha raccontato.

La mozione degli affetti è ovviamente lecita, come è lecito utilizzare la notorietà e la simpatia di certi testimonial per “far passare un messaggio” – ho trovato utile il testo di Matteo Bussola recitato dai giovani attori di Mare fuori. L’ho letto come una possibile lezione liceale sull’educazione ai sentimenti, una lezione (un po’ troppo lirica) sull’amore che può portare alla violenza. La semplificazione mi è parsa inevitabile e le contestazioni pretestuose. (Che significa che la violenza sulle donne non ha niente a che fare con l’amore? Se la violenza viene da un fidanzato che non accetta la fine della relazione, si suppone che una relazione ci sia stata e che all’inizio non sia stata imposta; dunque sarà stata vissuta dai due partner come una relazione d’amore; il patriarcato sistemico non esclude le motivazioni più personali).

Lo straniamento

Una forma efficace può essere anche lo straniamento: Ghali (immigrato di seconda generazione, genitori tunisini) che rilegge contropelo L’italiano di Toto Cutugno («sono un italiano vero»). Bella la sfida all’immaginario maschile di Big Mama, che dopo aver cantato (nella cover di Lady Marmalade) «voulez-vous coucher avec moi?» si rivolge con la sua fisicità da Saraghina felliniana alle donne e dice «non abbiate paura, se necessario denunciate».

Nell’ipotetica scuola dove i ragazzi di Mare fuori hanno fatto la prima lezione di livello base, lei potrebbe (ministro Valditara permettendo) tenere un corso advanced. Sarebbe bello se la kermesse aiutasse a ragionare senza pregiudizi sul tasso tollerabile di retorica in una società civile; ma forse ci vorrebbe meno rumore, meno superbowl de noantri, meno marchette ai futuri programmi Rai, meno sportivi a disagio, meno unanimismo forzato; meno la parola “cultura” sbandierata per dritto e per rovescio e più desiderio autentico di cultura.

© Riproduzione riservata