Mariposa: Fiorella Mannoia ha scelto come titolo del brano presentato a Sanremo una delle parole più simboliche e amate da Federico García Lorca. Sorprende e riempie di filologica gioia constatare che anche la struttura della canzone è lorchiana, così come lo è la costruzione delle immagini che contiene e ogni categoria di questa nuova grammatica usata dalla cantante per scrivere un manifesto delle donne in cui le donne, finalmente, dicono.

In questo preciso momento storico non lasciamo più «affogare la farfalla [della parola] nel calamaio per colpa di una stanchezza sordomuta», come scriveva Lorca quasi cent’anni fa da New York, sopraffatto da un mondo dominato dalle macchine, dalla guerra, dal razzismo e dalle disuguaglianze. No, ora non ci teniamo più un cece in bocca. Uno scarto enorme rispetto alle parole cantate dalla stessa Mannoia sullo stesso palco nel 1987. Non esitiamo più a «spiegare certe giornate amare», a sottolineare che siamo stanche davvero e che «non diremo ancora un altro sì».

Le immagini lorchiane

Lorca aveva una facilità innata nel creare immagini. Mannoia dimostra altrettanta abilità nei quadri concisi, tracciati in poche sillabe eppure dilatati come la storia del mondo: la donna è di volta in volta strega in cima al rogo, regina senza trono; una sposa sopra l’altare, la moda, l’amore, il vanto, una madonna e il pianto.

In questo iconico ritmo serrato spicca la ripetizione della prima persona singolare del verbo essere: sono, sono, sono. Ora tocca a me definirmi, sembra dire Mariposa, e tu presta attenzione al lessico, all’andamento della mia sintassi umana. Sono io e solo io – l’io lorchiano, sempre teso a diventare un noi, anche un noi sociale – e mi rivolgo a te, è a te che sto parlando, ascoltami bene.

È giunto il tempo di rammentarti il peso del mito insano che mi porto addosso e di cui non ti sei mai accorto. Lo faccio nella mia lingua e se ti sembra arcana – «dolcemente complicata» la definii nel secolo scorso, con una garbata quanto inefficace combinazione – è solo perché hai accomodato l’intero tuo mondo nel seggiolone del semplicismo, dello schema, del paradigma, del foglio Excel e adesso persino nell’abulia dell’Intelligenza Artificiale. E così ti sei convinto che tutte le parole possibili stiano nel dizionario, ben ordinate per nome (col suo genere fisso), aggettivo (senza esagerare con la varietà), verbo, complemento.

Sinonimi di pace per la tua coscienza. Ora invece ti scombino almeno le particelle, gli avverbi e le locuzioni dubitative, ti scateno il panico comunicativo: mi chiamano con tutti i nomi, tutti quelli che mi hanno dato, dice Mannoia come se rappresentasse sul palcoscenico dell’Ariston il Maleficio della farfalla di Federico García Lorca.

«Gli scheletri di mille farfalle dormono nel mio recinto» scrisse il musicista che decise di diventare poeta e drammaturgo per trovare un modo di dare la vita, di farsi utero, in senso letterale, per partorire le libertà di tuttƏ. Sono una nessuna e centomila gli fa eco la cantante, che firma un brano poetico come un canto primitivo andaluso, dichiaratorio ed emancipatore.

La donna della siguiriya gitana

Impressiona la voce recitante di Fiorella Mannoia che a piedi nudi ridà vita al Poema del cante jondo in un festival di musica popolare – l’ambiente ideale – riacciuffando forse inconsapevolmente quel filo culturale che «da millenni ci unisce all’Oriente impenetrabile». Nel 1921 Lorca aveva personificato in quattro donne altrettante modalità di antichi canti dell’Asia. La donna della siguiriya gitana «rompe il pianto della chitarra» con «l’ellisse di un grido»; nella prima parte della canzone di Mannoia il grido nel silenzio che si perde nell’universo, poi moltiplicato nelle sequenze di ahi, ahi, ahi riproduce lo stesso movimento, inizialmente drammatico.

La donna della siguiriya gitana incarna la pena. Solo in apparenza è pena per un amore sfortunato (e non andiamo via, ma nascondiamo del dolore): in realtà è pena cosmica, pena per i dolori del mondo di cui noi donne siamo chiare interpreti. Siamo figlie delle figlie delle figlie della donna della siguiriya, «una ragazza bruna tra farfalle nere, che cammina accanto a un bianco serpente di nebbia» il cui veleno è causa sia dell’antico dolore del gitano andaluso che della «pena nera» che Lorca vedrà ad Harlem.

È lo stesso veleno che oggi annienta il popolo palestinese e che ieri spediva insieme nelle camere a gas gli ebrei, i gitani e gli omosessuali come Federico García Lorca. Che nel 1960, nella Repubblica Dominicana, assassinò le tre sorelle Mirabal, Patria, Minerva e María Teresa, le tre mariposas a cui si ispira il testo della canzone di Fiorella Mannoia.

Nel carcere le tre sorelle cantavano ogni giorno ai propri mariti e agli altri uomini, rinchiusi anch’essi in un’ala del penitenziario, la loro pena e il desiderio di libertà dalla dittatura di Trujillo. Il canto archetipico di denuncia della siguiriya, farfalla antica e contemporanea, supera il tempo e lo spazio e oggi non fa più dire a Mannoia «tanto ci potrai trovare qui, con le nostre notti bianche», perché il qui ora sono le piazze diurne e in instancabile fermento, fisiche e virtuali e televisive; sono i palchi dei concerti dove la cantante articola le idee con parole e musica; dove fa rete e dà voce alla sorellanza, madre figlia, luna nuova sorella, amica mia, io ti do la mia parola.

Io ti do la mia parola nella doppia accezione di «puoi fidarti di me» e di «presterò sempre la mia voce a chi non ce l’ha o non c’è più. Nei secoli dei secoli». È quindi «fortunato (uomo o donna che sia) chi nasce farfalla o ha il chiaro di luna sul vestito» dice Lorca, perché possiede il dono della parola profonda e schietta, senza veli, utile a organizzarsi per sconfiggere qualsiasi bianco serpente nella nebbia.

Il colore bianco

Bianco è anche lo spettacolare abito da sposa con cui Fiorella Mannoia, gitana rossa, è comparsa sul palco nella prima serata del festival. Impossibile non associarla alla sposa di Nozze di sangue che costruisce una nuova morfologia del desiderio, libera da ogni senso di colpa, capace di domandare, di essere esplicita, ma anche di esigere il rispetto dei propri confini: sono sincera sono bugiarda, sono volubile sono testarda, sono stupore e meraviglia, sono negazione e orgasmo, sono stata tua e di tutti, di nessuno e di nessun altro.

Non c’è più voglia di adattarsi a piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi. Non c’è mestizia: la mariposa non è più falena miope, calamitata da una luce artificiale che le sembra il sole. E tutto questo non è folclore, non è canzonetta. È storia cultura e carne. È la luce della millenaria siguiriya, per sempre libera e orgogliosa.

© Riproduzione riservata