Da nord a sud, la tradizione del sanguinaccio dolce attraversa le campagne di tutta l’Italia, anche se è ormai quasi scomparsa. Ma genitori e nonni ricordano ancora le bottiglie di liquido vermiglio che dopo la macellazione del maiale finivano in budini e creme
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Questo articolo è tratto dal nostro mensileTra le molte tradizioni alimentari italiane di antichissimo corso ne esiste una che non viene quasi più nominata. La sua memoria è sbiadita come i ritratti di famiglia in seppia in cui ormai non si distinguono più i volti (e anche se si distinguessero nessuno saprebbe a chi attribuirli). Sta chiusa nella scatola delle storie di mostri e streghe dove teniamo piegati anche i vecchi costumi di Carnevale dell'infanzia.
Non riguarda i venti, trenta, quarantenni di oggi e a malapena riguarda i loro genitori. Assumerebbe consistenza attraverso le parole dei nonni se non fosse che quei nonni, adesso, sono quasi tutti morti.
In verità non c'è niente di orrorifico in questo impasto di ingredienti lontani, la storia delle torte di sangue è una storia comune di bisogni alimentari e ottimizzazione delle risorse.
Le tradizioni
A ben guardare non si tratta neanche di una storia, ma di un puro fatto in sé. I dolci a base di sangue sono esistiti a lungo e in tutte le campagne d'Italia.
Per il dolce, del resto, si dice che nello stomaco ci sia sempre spazio, figurarsi in tempi in cui quello spazio era oggettivamente presente alla luce della generale penuria di cibo.
Oggi il tempo è quello in cui la percentuale di persone che in Italia si dichiarano vegetariane è del 7,2 per cento e vegane intorno al 2,5 per cento (Eurispes 2024), con una crescita del 3 per cento per i primi e quadruplicata nell'ultimo decennio per i secondi.
Nell'ottica di un cambiamento radicale dei sistemi di produzione questi sono ancora numeri bassi, ma incoraggianti. Sono numeri che ci parlano del cambiamento dei costumi, dei consumi, delle esigenze e della sensibilità.
La scomparsa del sanguinaccio
Non stupisce che in questo contesto trasformativo si sia sviluppato un generale senso di repulsione per il sangue in qualità di ingrediente, a maggior ragione se protagonista di un dessert. Lo conosciamo dunque come sanguinaccio, ma è bene specificare «sanguinaccio dolce». Quell'altro, quello senza aggettivo, è un insaccato a sua volta multiforme e tuttora presente nelle tradizioni culinarie locali.
A Lucca lo chiamano «biroldo» ed è una sorta di salame molto scuro fatto con sangue e testa di maiale bollita e disossata, finocchietto selvatico, noce moscata e chiodi di garofano, mentre nel sanguinaccio leccese al sangue di maiale viene mescolato cervello bovino o suino, conditi con sale e pepe.
Alcuni di questi insaccati tipici sono ufficialmente riconosciuti e tutelati come prodotti agroalimentari regionali. I sanguinacci dolci, invece, assumono i toni della leggenda.
A Morengo, in Lombardia, si faceva con sangue di tacchino, brodo, prezzemolo e amaretti. Ci avviciniamo di più al moderno concetto di dessert con il sanguinaccio calabrese dove al sangue suino si aggiungeva il mosto cotto d'uva e cannella e noci spezzettate.
Una questione di consistenza del cibo, direbbe oggi un foodtoker prima dell'irruzione di un controllo Nas e Asl. Perché, in effetti, una delle ragioni principali per cui sanguinacci, creme, budini e torte di sangue oggi non sono più in circolazione e se ne parla poco è che la vendita di sangue di maiale e, in generale, di sangue animale, è stata dichiarata illegale in tutta Italia a partire dal 1992.
La logica alla base di questa normativa è comprensibile essendo il sangue veicolo privilegiato per la diffusione di malattie infettive.
Un duro colpo all'epoca per le generazioni cresciute con questa pietanza.
Un sospiro di sollievo per i figli del boom economico che venivano inseguiti da madri e padri con i loro terrifici impasti al grido di «fa bene» e «fa sangue» (affermazione quest'ultima in effetti difficile da contraddire).
Il ricordo
Normalità per i nonni, spauracchio quanto mai concreto per i genitori, quasi sempre astratta fonte di terrore mitologico per i nipoti, il sanguinaccio si avvia a essere dimenticato. Possibile che sia esistito?, viene da chiedersi aggirandosi per i siti culinari dove le ricette del sanguinaccio della tradizione abbondano, ma a leggerle scopriamo trattarsi di adattamenti contemporanei compatibili con i gusti e le leggi odierne (ovverosia: banalissimi budini al cioccolato da gustare insieme a chiacchiere e frittelle).
Ci sono pochissime persone che ancora lo preparano. Per trovarne tracce è necessario appellarsi alla bistrattata oralità, chiedere e setacciare le testimonianze umane.
Contattare cari e congiunti. Emergerà che una certa amica cresciuta in provincia di Bergamo, da bambina, ricorda di un cuoco amante delle ricette di un tempo, che oltre al baccalà mantecato ea dei deliziosi fichi secchi al cioccolato si deliziava nel riproporre, preferibilmente sottobanco, una torta impastata con sangue e cacao.
Dal Friuli arriveranno ricordi della casa dei nonni, quando nel giorno della macellazione del maiale gli uomini trattavano la carcassa e le donne raccoglievano il sangue che subito, affinché fosse freschissimo, portavano in cucina a bollire con uova e cioccolato per farne un budino scuro.
Orrore, è quello che invece trapela da una donna veneta che a quasi settant'anni ancora ricorda la visione di scintillanti bottiglie di vetro colme di liquido vermiglio. Le portava la vicina di casa con il bestiame in cambio di pochi soldi o qualche baratto. In casa, l'unico entusiasta era il padre, un uomo di inizio secolo che aveva visto due guerre e gustava quella torta preparata con riluttanza dalla moglie come fosse stata una vera delizia.
I libri di cucina
I ricordi iniziano a diradarsi, ma le testimonianze si trovano e, se osserviamo bene le nostre librerie, potremmo imbatterci nell'ufficialità del ricettario che sembra nobilitare ogni cosa, potremmo scoprire di aver sempre avuto sotto al naso cicche polverose e insperate.
Come La cucina trevigiana , di Giuseppe Maffioli (1983, Franco Muzzio Editore) che regala un intero capitolo alle tre principali varianti dei dolci con sangue di maiale. C'è il budino, fatto con latte, cioccolato fondente o cacao, zucchero «e un litro di sangue di maiale ancora fluido» a cui si va ad aggiungere farina e rum, e poi anche uvetta, cedro candito e amaretti sbriciolati. E che si lascia solidificare «in un bello stampo bagnato di marsala». Un procedimento simile viene usato per la “crema di sangue”, che vede però l'aggiunta al latte di otto uova battute, e che va servita fredda in tazza.
E poi c'è la «torta di sangue», che ha gli stessi ingredienti del budino: ma al posto della farina c'è riso vialone nano cotto, con cui si forma un composto da mettere «in una teglia unta di strutto» e da cuocere, prima di servire calda o fredda e cosparsa di zucchero a velo. Un omaggio a necessità alimentari che possiamo lasciarci alle spalle senza rimpianti e che qui lasciamo come puro gesto estetico, o come sfida al contemporaneo senso del gusto e del disgusto.
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