Non c’è bisogno di dire che quella della Repubblica, come in fondo un po’ tutte le presidenze, alla fine è sempre una cosa da maschi, checché si faccia sfacciatamente finta di dirne. Un partigiano (non una partigiana) come presidente – per far rima coi maccheroni al dente – cantava Toto Cotugno a Sanremo trent’anni fa, piazzandosi quarto dopo i Matia Bazar di Vacanze romane. Sanremo comunque, almeno due o tre volte, l’ha guidato una donna (una «eccellenza femminile», come recita la maschilissima formula adoperata durante queste ultime imbarazzanti elezioni); la Repubblica no.

Contemplando con costernazione, su Twitter, gli scatoloni da disfare di Sergio Mattarella – che mi auguro abbia agio di non impacchettarli di nuovo fino al 2029 – pensavo a come quest’uomo, una volta assurto al massimo ufficio della nazione, debba aver smesso di portare con sé uno dei tre oggetti che, da quando ho cominciato a tornare a casa da scuola da solo (e di lì per sempre), non sono mai mancati nelle mie tasche – o borse, o zaini.

Immagino infatti che persino un presidente abbia addosso un portafoglio e un telefono. Ma le chiavi? Esistono le chiavi del Quirinale, dell’Eliseo, del Cremlino, della Casa Bianca?

Le chiavi del presidente

Quando riesce machiavellicamente a farsi nominare vicepresidente, il Frank Underwood di House of Cards rifiuta di trasferirsi nell’usuale residenza ufficiale del Naval Observatory: fa venire i servizi segreti a montargli la sicurezza in casa, rimane nella sua townhouse con la moglie.

Lo stesso programma, secondo la sceneggiatura del Divo di Sorrentino, lo aveva Andreotti uscendo prima dell’alba per andare (così di certo credeva) in parlamento a farsi eleggere presidente della Repubblica nel 1992: niente dimora presidenziale, stiamocene a casa.

Le cose, si sa, andarono diversamente per lui, mentre Underwood nella stagione dopo finisce per trasferirsi – anche se alla Casa Bianca appunto, dove credo che Andreotti abbia dormito più notti che in Quirinale.

In ogni caso, mi domando cosa facciano delle proprie chiavi di casa i capi (o vicecapi) di stato che osservano i rituali del proprio ruolo e vanno ad abitare dove è prescritto che vadano – ospiti, in teoria, del popolo che servono. Esse languiscono forse nella tasca di un qualche bagaglio, come le mie quando sono altrove in vacanza o per lavoro? Le tengono in un cassetto, pronte per quando il mandato finirà e saranno riconsegnati alla proprietà privata che regola lo scarto tra ciò che è pubblico e ciò che è personale, intimo, proprio – uno scarto cui, a rigor di logica, hanno temporaneamente rinunciato giurando al proprio insediamento?

Forse mi sbaglio e, per abitudine o comodità, il presidente un mazzo di chiavi lo tiene in tasca comunque: quelle dei cassetti importanti magari, di un archivio o una cassaforte – quelle dell’ufficio mi paiono improbabili: lo staff deve certo poterci entrare sempre, anche in assenza del titolare.

Mattarella però, che prima del Quirinale abitava nella foresteria dei giudici costituzionali (un trilocale che immagino abbia lasciato completamente vuoto e lindo, riconsegnandone la chiave), non credo avesse chiavi sue al cui cerchietto di metallo aggiungere le eventuali di lavoro. E quelle della nuova casa da cittadino – pur presidente emerito e senatore a vita – che pare avesse già preso, le avrà dovute dare indietro. Anzi, non le avrà neanche tenute in mano.

Chiavi falliche e da tasca

Rimugino su quelle che mancano nelle tasche dei capi di stato non perché le chiavi siano poi così specifiche, in sé, dell’immaginario maschile. Certo, mi si dirà che sono falliche: uno dei correlativi oggettivi più invalsi della portatile natura del maschio tradizionale, che penetra le serrature e dischiude le porte, controlla gli accessi, espugna per diritto.

Potrei mettermi a discettare di chiavi che aprono cinture di castità medievali, delle chiavi dei goblin nella banca Gringott di Harry Potter, di quali chiavi disserrino la santissima o assai profana «porta del piacer» nel verso del Paradiso di Dante su cui si sono scervellati nientemeno che Erich Auerbach, Charles Singleton e, più recentemente, il mio amico storico della lingua Luca D’Onghia (si cerchi su Google il suo saggio: l’ipotesi è gustosamente bifronte, sia mistica che un po’ zozza).

Ma invece vorrei ragionare su come il mazzo di chiavi sia spesso un accessorio, quasi un gioiello, a volte un antistress o persino un’arma.

Se la moda femminile tende a relegare questo oggetto metallico piuttosto ingombrante e un po’ minaccioso, appuntito e seghettato, allo spazio misto, celato, della borsa, quella maschile non può che fargli spazio nella tasca – da cui, fatalmente, esce più spesso, annunciato dal tintinnio suo tipico.

A portata di mano, le chiavi sono un sonaglio che può farcire un cazzotto, decuplicandone il potenziale distruttivo; sono il grappolo che fa da sineddoche a un patrimonio personale, da cui si può strappare un acino (nei film di poker, sempre la chiave della macchina) per uno scambio o una puntata d’azzardo.

Non a caso, per onorare chi è sommamente benemerente, si donano le chiavi della città. Non a caso il Merovingio, nel secondo Matrix, monta un casino per non lasciare il suo prezioso prigioniero, il fabbricante di chiavi, nelle mani dei protagonisti. Non a caso la portineria, come metafora carceraria e psicosessuale, è al centro del capolavoro di Liliana Cavani, Il portiere di notte, la più inquietante analisi cinematografica su ciò che Susan Sontag chiamò il fascino del fascismo.

Le chiavi sono un emblema di potere, di controllo, di autorità e possesso. Per questo m’incanta il fatto che proprio chi ha più potere, essendo scarrozzato e ospitato e accompagnato e ricevuto da altre e da altri, non abbia ragione di portarle con sé. E penso poi che chi capo di stato ci nasce, essendo monarca, di chiavi non deve averne mai avute. Chiudono mai i palazzi imperiali, le residenze regali, le dimore principesche? E se chiudono, le chiudono i proprietari?

Chiavi del cuore e del regno

I sovrani insomma, eletti a tempo o incoronati a vita, dispongono solo di chiavi metaforiche. Sono altri a gestire quelle materiali, sobbarcandosi della responsabilità e del privilegio di chiudere e dischiudere ambienti, portiere d’automobili, cassette postali. Non è detto però che le chiavi simboliche e quelle di metallo non finiscano talvolta nelle stesse mani.

Federico II, presso la cui corte mediterranea prese vita, nel Medioevo, la nostra tradizione poetica, aveva notoriamente affidato le sue a un cancelliere e logoteta di cui sommamente si fidava: Pier delle Vigne, uno dei più indimenticabili personaggi della Divina commedia.

Quel dignitario oculato e amorevole non teneva solo le chiavi del potere di Federico, che amministrava attraverso l’influenza di una dolce persuasione: teneva anche quelle del suo cuore. «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo» si presenta con dignità, nell’indegna condizione di anima dannata e ridotta in pianta scempia, a Dante e Virgilio, recuperando un’immagine (quella delle “chiavi del cuore”) che nella lirica francese dei trovatori era stata coniata per descrivere legami amorosi.

Attraverso le chiavi, Pier descrive un rapporto d’amicizia profonda con l’imperatore: una bromance ante litteram in cui le due chiavi, una d’oro l’altra d’argento, sono adoperate come manopole radiofoniche, per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dell’amico serrando e disserrando con cura. Ecco lavata via con un colpo di spugna poetico la trita idea della chiave fallica: meglio pensarla come termostato, potenziometro, ingranaggio che scioglie e riannoda invisibili meccanismi.

Per diventare arbitro del cuore altrui non bisogna espugnarlo, prenderne possesso, fare un rogito. Bisogna invece diventarne uscieri, accordatori con due chiavi: aderire al modello di amicizia maschile proposto da Pier delle Vigne.

Si sbaglierebbe di grosso a credere che Pier fosse un banale sobillatore, una specie di visir che manipolava il sovrano: Dante non avrebbe scomodato il sintagma delle “chiavi del cuore” per meno di un amore fraterno. E non avrebbe neanche evocato, attraverso l’inconfondibile simbolo della doppia chiave, l’icona matrice di qualsiasi discorso occidentale sulle claves regni: Pietro, quasi omonimo di Pier, cui Cristo in persona affidò le chiavi per eccellenza. Mi domando chi sia il portiere (la portiera?) del Quirinale. Magari in quel ruolo lì, a tenere ambo le chiavi che Mattarella forse non avrà con sé per quattordici anni, c’è una donna.

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