Sto andando a Ferrara. Una volta in città, dovrò prendere la circonvallazione e seguire le indicazioni per Malborghetto, dove Simone e Stefania mi aspettano per cena, ma fin lì potrei guidare a occhi chiusi: questa strada è impressa così a fondo nella mia mente da esserne ormai un elemento costitutivo, un solco della memoria. È la strada che ho fatto ogni mattina, da ragazzo, per andare al liceo. Anno dopo anno.

Però, a differenza di allora, quando ero tutto proteso in avanti e le giornate non finivano mai, adesso vorrei fermare il tempo. Rallentare, per una volta, e scendere. Pochi secondi, giusto il tempo di respirare. E invece niente, tiro dritto. Non voglio arrivare in ritardo.

Finito il laboratorio, che è andato bene ed è durato più del previsto, ho preso un altro taxi per tornare in stazione, poi un treno regionale. Ora sto guidando la Renault Scénic di mio padre, e vorrei fermarmi, appunto, fare un bilancio della giornata e dell’incontro in ospedale. Vorrei fermarmi per sentire quel che mi sta succedendo, le mie emozioni, come direbbe Céleste, anziché seguire la corrente, ma so che non c’è tempo per una sosta, qui, lungo la strada, e così alzo il volume della radio e continuo a guidare.

Brillante e vitale

I lampioni disegnano globi arancioni sul parabrezza. Supero la grande rotonda alle porte della città, e mi torna in mente una scena di Philadelphia. Non so perché. Sono anni che non lo guardo. Eppure ricordo, o credo di ricordare, che nelle prime scene c’è molta ironia, molta leggerezza. È un film drammatico sulla discriminazione, certo, ma è insospettabilmente ricco di umorismo. Ed è per questo, forse, che mi è tornato in mente, perché Tom Hanks è stato uno dei nostri idoli giovanili – un idolo mio e di Simone. Era il capitano di tutta una squadra di fratelli maggiori che avremmo voluto avere al nostro fianco, noi che eravamo due figli unici. Una formazione di tutto rispetto, composta da gente come John Belushi, Bruce Springsteen, Steve Lillywhite e Jimmy Rabbite, il protagonista dei Commitments.

Ecco, questa sera vorrei essere anch’io come loro, brillante e vitale. Nella prima sequenza del film c’è una scena in cui Tom Hanks telefona alla madre dopo la chemioterapia. È un uomo brillante e vitale, sì, immune all’autocommiserazione, ottimista a oltranza. Le dice di sentirsi bene, che gli esami del sangue sono confortanti, che il numero delle piastrine è in aumento, insomma, le dà buone notizie. La madre è in cucina, sta preparando da mangiare. Traffica con le stoviglie e si muove allungando il filo del telefono. Basta un’inquadratura per capire che si tratta di una donna con i piedi per terra, saggia e pragmatica.

È in là con gli anni, ed è probabile che nella vita abbia già sofferto, reggendo l’urto. E tuttavia quando Tom Hanks le chiede come sta lei si commuove. È un attimo, perché fa di tutto per non piangere, per non lasciare intuire al figlio la propria emotività. Mamma, ripete lui, dopo quell’attimo di silenzio. Sto bene, si affretta a rispondere lei. E papà? Anche papà sta bene, gli dice. Stacco. La scena finisce qui, o quantomeno qui finisce la parte che ricordo.

Non piangere

Qualsiasi cosa succeda, non piangere. Fermo a un semaforo, adesso, mi chiedo se questa sia la lezione che il dialogo mi ha insegnato, tanto tempo fa. Che cosa sarebbe successo oggi, mi chiedo, se mi si fosse incrinata la voce mentre mi presentavo a Valeria, a Caterina, o peggio ancora ai ragazzi? Se fossi scoppiato in lacrime, perdendo il controllo delle mie emozioni? Avrebbe significato ammettere che c’era un pericolo di morte nella stanza? Ecco, mi sono perso.

***

Dopo il funerale – che si è tenuto la settimana scorsa, trasformandosi in una lunga catena di abbracci tra amici e conoscenti appena la commemorazione si è conclusa – mi sono ritrovato da solo. Come tutti, immagino. Sono tornato a Torino, alla vita di prima, e al di là di qualche accenno con Nina o con i colleghi al lavoro, ho tenuto tutto dentro. Non sapevo se fosse giusto, o sano, o perfino socialmente accettabile parlarne. Insistere sugli stessi pensieri, tornare ossessivamente agli stessi istanti. Avrei voluto chiamare Stefania ogni giorno, e anche Frances, ma non volevo invadere il loro spazio. Così come non volevo crogiolarmi nell’autocommiserazione – un’espressione che ho sentito usare tante volte per descrivere chi sta attraversando un lutto.

Nella famiglia in cui sono cresciuto non si parla dei morti. Adesso invece sono libero di farlo. Posso prendermi tutto il tempo di cui ho bisogno, e seguire la via più lunga verso casa. Raccontare a Clementina equivale a ricordare. Mentre parlo, o mentre ascoltiamo le sue canzoni, ho l’impressione che Simone sia con me più di quanto lo fosse prima – questa è la meraviglia della perdita, ho scoperto, allo stesso tempo oscura e luminosa.

Raccontare la sua storia significa aprire ogni volta una ferita che stenta a richiudersi, che non vuole rimarginarsi, e sentire il vuoto che nasconde. Un vuoto che adesso è parte di me. Parte del mio corpo.

«Ma papà. Era bello il tuo amico?»

Bellissimo, rispondo. Era più alto di me. Aveva una testa di capelli folti, castano chiaro. Gli occhi azzurri. Aveva un sorriso disarmante, e un piccolo neo sul naso, appena sopra la narice. Aveva le dita lunghe, con le articolazioni molto snodate, quasi elastiche. Double-jointed, avrebbero detto gli inglesi. E questo lo avvantaggiava quando si trattava di suonare. E poi era...

«Dabò gioin», ripete Clementina.

Sì, le dico, anche se sto parlando a me stesso. Double-jointed.

E poi era un’ottima forchetta. Gli piaceva di tutto. Soprattutto gli piacevano le cose semplici come gli hamburger e gli hot dog e la porchetta e la maionese e il salame. Era bravo a cucinare.

E poi cosa è successo?

La sua specialità era il risotto allo zafferano, ma se la cavava bene anche con il pane. Era astemio, di fatto. Niente vino, niente birra. Una volta ha bevuto un limoncello ed è stato malissimo.

Anche nella musica – così come nei libri o nelle serie – non sopportava la sofisticazione fighetta. Le leziosaggini, i virtuosismi. I piagnistei. Davanti a un film si arrabbiava se i buoni erano troppo buoni e i cattivi troppo cattivi. Aveva un basso Fender Squier color ciliegio con il battipenna bianco. Amava Gabriel García Márquez e Romain Gary e Nick Hornby e Tiziano Terzani e John Landis e Rino Gaetano e Ani DiFranco. Per primo, aveva creduto in Obama. Aveva creduto in Aung San Suu Kyi e Arundhati Roy e Vandana Shiva e Amartya Sen – all’inizio era convinto che Amartya Sen fosse una donna. Negli Stati Uniti sarebbe stato un democratico. Nel Regno Unito un laburista. In Spagna un socialista. Era un riformista fino al midollo. Non un rivoluzionario. Era integrato, non apocalittico. Mai. Era agnostico, più che ateo. Era figlio unico. Era un geometra. Disegnava piscine riabilitative. Era un volontario di Emergency. Era un rocker. Era un amico. Aveva un talento formidabile, purissimo, per scovare la bellezza in ogni cosa. Dalla finestra del bagno di casa sua, quando eravamo ragazzi, se stavi in piedi e guardavi fuori potevi vedere Los Angeles, come per un miraggio.

«E poi cosa è successo?» mi chiede Clementina, interrompendo il fiume dei ricordi. «Vai avanti, papà».

Già. E poi cosa è successo?

Non lo so più. Ho perso il filo della trama. I fatti si sono aggrovigliati.

Cosa è accaduto prima, cosa dopo? Dove abbiamo sbagliato?

Abbiamo sbagliato?

da Il libro della pioggia, Bompiani, © 2023 Giunti Editore S.p.A./Bompiani

© Riproduzione riservata

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