Mio padre è stato senz’altro il più grande giocatore di scopa di tutti i tempi; uso il passato solo perché ad un certo punto ha smesso. E ognuno che sia stato il più grande a fare una cosa sa bene che c’è sempre qualcuno più forte. E se non c’è già è solo perché sta nascosto da qualche parte, e prima o poi si presenterà. Per questo un individuo deve sapere quando lasciare, proprio come farebbe un sovrano.

Indovinare il momento giusto per abdicare, in questo ogni uomo può essere un re. Mio padre non è venuto meno a questa norma, per questo, un bel giorno, ha smesso. Esattamente nello stesso modo in cui aveva cominciato, come se qualcuno gli avesse suggerito all’orecchio di fare così.

Il viaggio

Durante le vacanze estive ci recavamo con la famiglia al campeggio poco fuori Roma; erano 50 chilometri, e a noi ci sembrava un viaggio. E forse lo era davvero perché prima di partire dovevamo pure aver fatto la pipì, altrimenti bisognava fermarsi per strada. Una volta arrivati al mare, tutto ricominciava da dove lo avevamo lasciato l’estate precedente, era come fossimo andati via solo il giorno prima. Assieme a noi tornavano ad abitare quel posto degli altri esseri, artificiali però, piscinette e materassini rossi e blu, ciambelle colorate e camere d’aria gonfiate col compressore. Un popolo di gomma che ci accompagnava per tutta l’estate, nei pomeriggi bollenti e sui cavalloni che faceva il Maestrale.

Al tramonto giocavamo a pallone coi ragazzini degli altri settori, partite che finivano quando era ormai buio e non ci si vedeva più. Poi qualcuno strillava di aver fatto gol, ma non si sapeva nemmeno dove fosse il pallone. Mentre i ragazzini stavano al mare dalla mattina alla sera, i padri rimanevano alle roulotte, e giocavano a carte tutto il tempo, ad un tavolo quadrato messo all’ombra.

Questo per 15/16 ore al giorno. E le donne si chiedevano come non gli fossero ancora spuntate le piaghe da decubito sul sedere a forza di rimanere seduti sulle sedie. Ma loro nemmeno rispondevano. Erano sempre concentratissimi, e sembravano ignorare qualunque cosa succedesse attorno al tavolo.

Tesi in uno sforzo che lasciava i loro visi vuoti, puliti, lisci, privi di qualunque espressione, come quando scrivi sulla sabbia, e viene poi il mare a cancellare tutto. Per un mese circa si predisponevano a qualcosa scontrandosi ripetutamente fra loro. Da soli, uno contro uno, o a coppie. Era la preparazione a un vero e proprio campionato che si svolgeva in modo itinerante all’interno del campeggio, senza troppa pubblicità ma con appuntamenti mezzi segreti e mezzi pubblici.

Le partite di questo torneo si svolgevano nel tardo pomeriggio, il calendario degli incontri era abbastanza fitto, soprattutto all’inizio della stagione, e ci voleva un po’ per capire chi stesse realmente superando le fasi eliminatorie.

Un signore con una sigaretta spenta in bocca teneva l’elenco dei partecipanti, e si ricordava l’ordine delle partite a venire. Durante i confronti si poteva fumare, sputare, bere birra e vino e bestemmiare liberamente. E anche scoreggiare, cosa per la quale i campioni si inclinavano leggermente da una parte, e rimanevano messi un po’ così, tipo le torri medievali che stanno nelle città, che non ce n’è una dritta.

Quando era in programma la partita bisognava andare presso quelli che ospitavano l’incontro. I nostri erano in quattro. Mio padre, altri due fortissimi, sempre in polemica fra loro, e il quarto, che è stato un ruolo sempre mezzo incerto, coperto in alcune annate da un vecchio meccanico Renault, che non aveva mai convinto del tutto, forse per sopraggiunti limiti di età. Il gioco delle carte, come tutti gli sport, richiede principalmente la giusta prestanza fisica.

La squadra

Il meccanico anziano fu quindi sostituito da uno che si chiamava Guido. Troppo leggero dicevano i senatori, troppo superficiale. Era uno che si credeva di stare in vacanza, mentre il gioco delle carte per gli altri era un autentico lavoro.

Forse era il loro vero lavoro. Quel ruolo di quarto, meglio di tutti, lo coprì un mio zio acquisito, cognato di mio padre, originario del beneventano. Si trattava di un vero fuoriclasse, il cui unico limite era quello di non essere facilmente disponibile.

Ma mio padre voleva lui, per questo si rendeva necessario aspettarlo. Ogni estate, finché i ranghi non fossero al completo.

Dopo una settimana di confronti cominciavamo tutti a vederci più chiaro sui valori in campo. Il torneo era esclusivamente maschile, però le donne venivano in pineta lo stesso e si dilettavano anche loro con le carte, perché c’era una signora più anziana che faceva i Tarocchi. Un’attività che diventava febbrile in certe congiunture dell’anno, come al solstizio d’estate.

E da lei c’era la fila. Perché sapeva il destino, dicevano. Con l’andare dei giorni di competizione le partite si facevano sempre più importanti e per questo più rade. Da quel momento in avanti che cominciava a tornare sempre con maggiore frequenza la sagoma inconfondibile di mio padre. Quel profilo emergeva dal disordine del mondo, sempre con maggiore potenza. La folla di gente intorno a lui cominciava a diradarsi, come la foschia al mattino. Ogni anno assistevamo allo stesso copione, con mio padre in finale di scopa sia in doppio che in singolo. In doppio era possibile pure che perdesse. Era una cosa rara, ma poteva succedere.

In singolo invece non aveva mai perso e non perse mai. Le carte sono come il tennis, l’incontro a quattro è divertente, ma non ha l’intensità della sfida a due, che è invece un duello. Finché cominciò a giocare solo in singolare.

Il duello

Seguito sempre dai suoi compagni, che durante il torneo si trasformavano nei suoi allenatori e consiglieri, come quelli che stanno all’angolo del ring durante gli incontri di pugilato. Dopo alcune stagioni tutti si resero conto che a scopa era imbattibile, e su tutto il litorale cominciarono a chiamarlo Stalin. Finì pure escluso dai tornei, nel senso che il calendario degli incontri si svolgeva senza di lui, e il vincitore poi si giocava la bella con mio padre.

Il quale giocava quindi una partita sola all’anno, vincendola sempre. Noi ragazzini non partecipavamo mai al torneo, perché per farlo dovevi avere i peli sul petto. L’unico contributo che potevamo dare, quando ci veniva richiesto, era andare a comprare le carte da gioco in una rivendita che era anche una piccola cartoleria che stava sulla strada.

In realtà il negozio era un emporio e vendeva tutto, ombrelloni, frisbee, e le bombolette blu del gas. E anche le carte da gioco. Che si chiamavano “piacentine plastificate” ed esistevano di due marche, Dal Negro e Modiano. Entrambe contenute in una scatolina rossa. Erano praticamente quasi uguali, ma non per mio padre; avevo capito che lui preferiva le Modiano. Ma era inaffrontabile anche con le Dal Negro. Dopo le partite i nostri tornavano al settore. E si rimettevano a giocare di nuovo a carte.

Ma erano partite defaticanti, consumate col sorriso, dopo gli impegni del pomeriggio. Ma dietro quelle facce da pizzicaroli in vacanza, da ubriaconi in mutande, da disertori del lavoro, si nascondevano invece degli autentici computer, processori in grado di analizzare un volume di informazioni impressionante in un tempo brevissimo. Dei professori, dei geni del calcolo infinitesimale. E compresi tutto questo l’unica volta che giocai per scherzo contro mio padre. Sul tavolo non c’era mai una somma inferiore a dieci. Lasciava una carta di valore solo se erano già uscite le altre tre uguali. Consapevole della somma complessiva del mazzo, sottraeva i quozienti parziali di ogni singola mano fino a sapere il valore delle ultime tre carte in mio possesso. Teneva il conto delle carte che si erano già accoppiate, e risaliva infine a quelle ancora da accoppiare. Poi si guardava le sue, e per differenza sapeva quali fossero le mie. Per questo l’ultima mano con lui si trasformava in un incubo.

Mio padre sapeva dunque ogni cosa: chi ero, quello che pensavo, vedeva dentro di me e nelle mie mani. Non giocava solo a scopa, lui conosceva il destino, proprio come la vecchia che in pineta faceva i tarocchi. Forse sapeva pure quando sarei morto, per questo non lo affrontai mai più, per timore che mi rivelasse quei segreti che è meglio non sapere. Nell’unica partita che ho disputato contro di lui ho preso solo una decina di carte. E nessuna a denara.

Giorni dopo si scontrò, in una partita organizzata per l’occasione, con uno forte, veramente forte, venuto apposta da un altro campeggio per giocare contro di lui. Mio padre lo demolì miseramente in un pomeriggio. Dopo non si salutarono nemmeno.

E quella fu l’ultima volta che lo vedemmo giocare. Sulla strada del ritorno parlavano con quel mio zio acquisito, suo cognato, e mio padre disse di sapere che all’ultimo giro il suo avversario era rimasto con una carta dispari in mano.

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