Quando l’uscita del nuovo romanzo è imminente lo scrittore si precipita a fare l’unica cosa che oggi davvero conti: cambia le foto profilo dei suoi account, sostituisce la sua faccia con la cover del libro.

Lo scrittore sa che dopo la rivoluzione copernicana dell’internet, la promozione non riguarda più i vecchi giornali o la vecchia televisione generalista e neppure l’ancor più vecchia (e quindi percepita cool) forma di comunicazione radiofonica. Tutto accade nell’isola che non c’è, cioè nel mondo nevrastenico dei social network, ormai diventati fondativi di una nuova cosmogonia: se non sei laggiù, non esisti.

Agli uffici stampa non pare vero, perché se nei vecchi medium serviva il loro impegno, nei social diventano solo mezzi di supporto allo sforzo quotidiano dello scrittore, che deve sbattersi di qua o di là per ottenere contenuti che facciano scattare un quarto d’ora di clickbait.

Tic nervoso

L’autopromozione non è mai stata così sdoganata e priva di pudore, e non riguarda più l’editoria a pagamento, bensì il mainstream. Lo scrittore freme soprattutto perché, per la prima volta nella storia della letteratura, può guardare il suo pubblico. Può guardare in faccia i suoi lettori a uno a uno, e poco importa se si tratta soltanto di pixel.

A differenza dei suoi illustri predecessori, che al massimo potevano ricevere qualche lettera di reazione all’opera magari spedita mesi o anni prima, lo scrittore adesso può monitorare l’andamento del suo romanzo in tempo reale, e tale e quale a un attore può guadagnare il proscenio del suo teatro virtuale per prendersi uno scroscio d’applausi o una bordata di fischi.   

Lo scrittore monitora continuamente le reazioni dei lettori – aggiornando le pagine dei suoi svariati profili come fosse un tic nervoso (e spesso lo diventa) – in attesa spasmodica dei tweet, dei post, delle foto. Tutto ciò che per sbaglio esce nei canali tradizionali non vale in sé, ma solo in quanto può essere immediatamente (re)immesso nei nuovi canali, perciò parcellizzato in cinguettii, sintetizzato in post, fotografato e montato ad hoc per essere infilato nel rullo delle stories.

Diventano fondamentali le interazioni, tutto ciò che può accadere in coda a un contenuto, i commenti di pancia che sostituiscono il piacere – l’estasi contemplativa – di restare da soli con l’opera, o i like che soppiantano l’analisi speculativa.

La filosofia del thread è la prosecuzione del cazzeggio da talk show con altri mezzi; l’imperativo categorico dell’hashtag è l’illusione di poter uscire vivi dal nuovo labirinto di Cnosso.

Lo scrittore fa anche degli incontri dal vivo, ma è come se ripetesse uno spartito in cui ormai non crede più, è sempre distratto, perché sa che la vera partita del consenso e del dissenso si sta giocando altrove (ed è tracciabile!), che quello spicchio di realtà è obsoleto e non inciderà sulla statistica, che quelle porzioni polverose di librerie o biblioteche o festival o rassegne in cui fa la sua brava “comparsata” sono solo un riflesso infinitesimale di quell’altra realtà, ormai troppo più ingombrante: la virtualità.

A differenza della realtà, dove tutto è sfuggente e aleatorio, nel virtuale tutto resta impresso e archiviato, linkato e reperibile. Si vive in questo paradosso, ciò che c’è è astrattissimo, ciò che non c’è è concretissimo. Nessuna palingenesi all’orizzonte, soltanto un penoso affannarsi in un ecosistema in cui lo scrittore è l’ultima ruota del carro, il mentecatto che è costretto a usare i social non per vendere sé stesso – come fanno tutti gli altri, a partire dagli influencer – ma soltanto un prodotto difficile da smerciare (fosse uno struccante viso sarebbe buono per farci dei tutorial, almeno).

A breve il romanzo dello scrittore uscirà, e lui è già pronto ad aggiornare le pagine a ogni respiro, fino all’ultimo respiro – il refresh come preghiera laica o grande psicosi collettiva –, nel disperato tentativo di sentirsi utile per il proprio lavoro, di impiegarsi anche in quell’ultima, tragica, attività: autolegittimarsi, tanto in pochissimi leggeranno e, tra quelli, ancora meno capiranno ciò che hanno appena letto.

Nuovi quesiti

Goodreads e Anobii cominciano a popolarsi di recensioni? In che posizione è il romanzo nelle classifiche degli store online? Queste e non altre domande popolano la mente dello scrittore all’uscita del suo nuovo romanzo. Non se faranno un Meridiano della sua opera, ma se alla fine, dopo varie insistenze, messaggi diretti, scambi di vocali su Messenger, Rutto95 o Fragolina18 si decideranno a pubblicare qualcosa sui loro profili, ci metteranno una buona parola.

I social network hanno inventato la raccomandazione dal basso, forse una nuova militanza pop. Un tempo lo scrittore avrebbe venduto la madre per un pezzo di critica colto e informato, adesso sgomita perché il suo romanzo arrivi sulle cosce giuste per una fotografia multi-tag. 

Ed eccoci, finalmente il giorno è arrivato, il romanzo dello scrittore viene tirato fuori dagli scatoloni e sistemato sui banchi delle librerie, ma la partita della visibilità, come si è detto, si gioca soprattutto altrove (nella bolla, visibilità ridotta a prescindere, ma tant’è). Lo scrittore surfa da un sito all’altro, da un lit-blog a un gruppo di lettura su Facebook, da una community Telegram a una newsletter. Se non succede niente dentro quel parallelepipedo che gli sta tutto in una mano, difficilmente potrà succedere qualcosa da qualche altra parte.

La sua opera può benissimo essere fraintesa o passare in secondo piano, e d’altronde non è sempre successo così? Ai bei vecchi tempi della critica letteraria non c’erano forse consorterie e marchette? Le recensioni non erano usate per avvantaggiare gli amici e punire i nemici? Le opere non venivano bellamente appiattite sul gusto del critico di turno, a sua volta malato di immedicabile narcisismo come tutti? Non ci si sentiva totalmente equivocati, sia nelle stroncature che negli elogi (soprattutto negli elogi?).

Successo a cinque stelle

Diciamocelo: oggi lo scrittore non vuole essere capito, gli basta essere menzionato. D’improvviso un voto accompagna i primissimi vagiti del suo nuovo romanzo, lacera l’aria digitale e fa cominciare le danze telematiche. Si tratta di un voto su Amazon (lo scrittore pubblicamente si schiera sempre a favore delle librerie fisiche, «luoghi irrinunciabili di aggregazione e di cultura» dice a più riprese, in gran segreto acquistando ogni tipo di prodotto sul colosso e-commerce, perfino i libri, un po’ per accidia un po’ per essere fino in fondo figlio del suo tempo), le cui classifiche aggiornate ogni ora sembrano fatte apposta per far insorgere le patologie di cui si è detto, prima tra tutte la coazione al refresh.

È un voto espresso in stelle ed è bellissimo, lo scrittore quasi stenta a crederci, ora che lì sul suo schermo vede la certificazione del suo successo, la verifica che le sue intuizioni e il suo lavoro sono davvero originali come pensava.

Lo scrittore ha preso cinque stelle, il voto massimo, è un tripudio, è un trionfo, e d’improvviso tutte quelle notti in bianco trascorse a rompersi la testa su plot e personaggi, su variazioni narrative e verosimiglianza, gli appaiano leggerissime. Da queste prime cinque stelle si proietta già allo Strega, al Campiello, fino alla passerella internazionale, alla traduzione in trenta lingue e relativa copertina di un periodico: «Lo scrittore che il mondo ci invidia», al Nobel.

C’è una brevissima recensione che accompagna la valutazione, lo scrittore la ammira emozionato, quasi con le lacrime agli occhi. Poi però la legge: «Tempi di consegna perfetti, imballaggio ottimale».


Luca Ricci è autore del libro appena pubblicato Gli invernali, edito da La nave di Teseo

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