C’era un programma che davano quando ero piccola su Disney Channel, un canale che appariva e spariva misteriosamente dall’abbonamento Tele+ di mio padre. Si chiamava House of Mouse - Il Topoclub e mi faceva impazzire. Lo aspettavo come se fosse l’evento della settimana, l’apoteosi dei miei desideri televisivi: raccontava le serate di un club, appunto, dentro cui prendeva forma il frullato sincronico e postmoderno di tutti gli universi Disney.

Paperino, Crudelia Demon, Aladdin, Cenerentola e molti altri si ritrovavano insieme, in un contesto hollywoodiano di gran gala, come se la loro vita fuori dalla cornice narrativa del cartone continuasse regolarmente, con un palco su cui fare monologhi di stand up comedy, tavolini da cui ordinare cocktail, e le scope di Fantasia che tenevano pulito a terra. Era un po’ come andare a Disneyland, ma senza dover prendere un aereo per Parigi, o come guardare i Telegatti ma fatti a misura di seienne.

Era questo che mi aspettavo di vedere durante la serata di La TV fa 70. Da grande appassionata del mezzo, sognavo il mio Topoclub in versione Rai, una festa piena di allegria e di chicche per chi ha trascorso gran parte della propria esistenza incollato a uno schermo, schiacciata tra Paolo Limiti e Tiberio Timperi.

Specialmente nel presente, un tempo in cui la verticalità della televisione è stata spazzata via dalla moltitudine dell’offerta, nel palinsesto fai da te che a forza ci dobbiamo cucire addosso, tra mille abbonamenti e cataloghi insoddisfacenti, chiamare a raccolta gli Avengers del servizio pubblico per dare vita al multiverso Rai, tutto insieme in un solo momento, poteva essere un’operazione straordinaria. Per dirla in modo democristiano, il risultato non è stato in linea con le aspettative. E forse il fatto di mettere alla conduzione un presentatore che non presentava in Rai dal 2017 non è stata la migliore delle idee.

«Se qua ci resto»

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Il piano di egemonia culturale della destra parte dalla televisione, questo è chiaro. Massimo Giletti, che dal 2023 vaga come un’anima in pena dopo la cancellazione improvvisa e misteriosa di Non è l’Arena, e dopo il “tradimento”, così lo ha definito in un’intervista a Gente, di Urbano Cairo, è l’uomo giusto al momento giusto.

Né di destra né di sinistra, la formula perfetta per essere assorbiti dalla destra, giornalista scomodo che non esitava a chiamare in causa personaggi controversi, da Panzironi a Corona, e a solleticare complottismi e scetticismi vari durante tutta la pandemia, Massimo Giletti dovrebbe essere per la Rai ciò che Fabio Fazio è stato per Discovery. E difatti, non c’è un minuto di La TV fa 70 in cui non sottolinei che è tornato dopo tanti anni, con piglio da umile ospite, «Se mi vogliono», «Se ci resto qua», mentre tutti i presenti si complimentano per il suo grande ritorno.

Non si toglie la giacca, non passeggia in cerchio sul palco, non indica la telecamera, non è in trincea con un elmetto. Non c’è il gilettismo, ma non c’è neanche la spensieratezza del vecchio Massimo anni Novanta, quello di Guardì e di Rai 2, quello che balla in modo scomposto ed euforico, frammento brillantemente ripreso dalla pagina-Blob di Instagram Prossimi Congiunti, unico vero archivio del camp televisivo degli ultimi trent’anni. In queste quattro ore di programma, cucite assieme come una coperta di patchwork dai colori non particolarmente abbinati, Massimo Giletti sembra capitato lì per caso, mollato da Chiambretti fuori dagli studi.

Quando arriva Amadeus, primo grande ospite, si tira un breve sospiro di sollievo e familiarità, subito troncato dal grande tema della serata: chi si prenderà la patata bollente di Sanremo 2025? E l’horror vacui per il futuro incerto diventa presto terrore della possibilità che a raccogliere quella staffetta sia proprio Giletti, nonostante lui declini con grande modestia ogni ipotesi del caso, riportata a galla a più riprese durante queste infinite ore di celebrazione che, più che una festa, sembrano un funerale, tra le immagini degli assenti, gli aneddoti triti e ritriti e il mantra del conduttore che ripete a sfinimento «sempre se qua ci resto».

Baudo e Conti

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Fiorello viene intervistato a distanza con una finta interazione del presentatore, risultato grottesco, sembra che nessuno stia ascoltando l’altro. Pippo Baudo, piantato nel suo studio, circondato da Telegatti e con un evidente ritardo nel collegamento, ritorna in televisione per l’occasione, ma sprofonda in sguardi di malinconia inevitabile durante ogni momento Techetechetè che lo ritrae giovane, con i capelli densi di tintura, le gambe lunghe e scattanti.

Se a 88 anni mi sottoponessero a questa visione forzata di tutte le cose migliori che ho fatto in vita mia come se fossi già morta non so se avrei la forza di mantenere la stessa educazione di Baudo, ma del resto il baudismo lo ha inventato lui.

Carlo Conti entra a due ore dall’inizio per recitare insieme a Giletti un dialogo che sembra una raccolta di post su Facebook tratti da pagine come “Noi degli anni Settanta che andavamo in giro con la Vespa e 50 lire in tasca”, una rivisitazione del più classico “Ai miei tempi qua era tutta campagna”. Conti, ci dice Fiorello il giorno dopo, sta ancora correndo per scappare dalla proposta di tornare all’Ariston; comunque vada, questo venti-venticinque sarà un insuccesso.

L’Italia e la tv

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La prima donna della serata è Angelina Mango, arriva alle 22.09, canta e non dice una parola per poi essere presto congedata. Maria De Filippi si collega dalla scuola di Amici per parlare di Antonio Ricci e Maurizio Costanzo, e la domanda sorge spontanea, ma se sono i settant’anni della Rai, perché stiamo guardando Canale 5? Unico momento di vero interesse, l’aneddoto sul suo corteggiamento da parte della tv di stato, tamponato da Confalonieri.

Mara Venier e Milly Carlucci vengono ricordate con una clip in cui si dice che le donne per stare in televisione devono essere per forza giovani e belle, Giletti commenta con Baudo e Conti, «Ma non è vero che in tv le donne non hanno spazio, guarda loro due».

E difatti, non mettono piede in quello studio, a differenza di Antonella Clerici, alla quale viene chiesto senza troppi giri di parole se per lavorare in tv ha dovuto cedere alle avance di qualcuno. Anche Raffaella Carrà viene omaggiata con timidezza, ma del resto, dopo aver lasciato che se ne occupasse Disney+, cos’altro c’era da dire sulla donna più importante della nostra televisione?

«L’Italia tra trent’anni sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione», è la citazione di Giacomo Devoto con cui si apre la fase finale di questa epopea che si conclude con un semicerchio composto da Mentana, Zanicchi, Ventura e Vespa.

Poteva essere un tavolo di Fazio, ma è l’una e mezza, i pochi spettatori rimasti svegli sono stanchi e, soprattutto, Fazio non c’è. La frase di Devoto sembra un brutto monito per il futuro. Se l’Italia dei prossimi trent’anni sarà fatta dalla televisione che abbiamo visto in questi 232 minuti di confusione e tagli, il futuro non promette bene.

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