La luminosa eloquenza di Amanda Gorman alla cerimonia inaugurale del quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti lo scorso 20 gennaio ha sollevato gli animi come nessuno dei sommi poeti chiamati a questo onore prima di lei, eppure si trattava di un gruppo eccelso, da Robert Frost a Maya Angelou.

Che la poesia sia invitata sul palco nel momento più importante della vita politica di un paese è bella cosa, perché così facendo se ne riconosce tutta la forza. Trascinare le masse recitando versi però è impresa ardua, perché la poesia necessita di intimità e di sussurri e mal si sposa con la retorica di piazza. Amanda Gorman, di anni ventidue, invece lo ha fatto. La sua recitazione ha colpito per forza, schiettezza e per passione. La poesia che ha scritto per l’occasione si intitola The hill we climb (la collina che scaliamo) e parla di speranza, di fiducia nel lungo percorso di democratizzazione del paese, di partecipazione al processo politico. Parla soprattutto di inclusione.

Alla luce della storia recente degli Stati Uniti, delle sue divisioni sociali, ideologiche e politiche, dell’ascesa dell’intolleranza e del suprematismo razziale, che solo dieci giorni prima avevano portato a un fallito colpo di stato, una tale poesia poteva rimanere nell’ambito della piatta retorica politica. Ma così non è stato. La recitazione della Gorman è riuscita a superare il momento celebrativo per diventare al tempo stesso espressione delle ambizioni personali dell’autrice – discendente di schiavi, cresciuta senza padre e aspirante presidente – e canto di speranza di tutti gli esclusi.

Il testo della Gorman, che ha buona chance di entrare nei libri di storia, è immediatamente diventato il leitmotiv della svolta americana: comprensione invece che rancore, fiducia invece di sospetto, inclusione invece che esclusione.

A decretare questo successo non è stata la sola qualità del testo ma anche, e soprattutto, la forma espressiva scelta dalla Gorman: non poesia in senso stretto, ma spoken word. Con spoken word ci si riferisce a un atto poetico in cui parole, cadenza e gestualità sono veicolo di significato. La spoken word affonda le radici nel jazz e nel rinascimento di Harlem ma si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Ottanta con la hip hop e i poetry slam. È la forma poetica della politica identitaria e ribelle, quella che negli ultimi venti anni ha radicalmente cambiato il paesaggio culturale degli Stati Uniti. Spoken word è il linguaggio dei giovani e della strada, è fresco, è immediatamente comprensibile e soprattutto include una fetta di pubblico americano che con la poesia altrimenti avrebbe poco da spartire.  

Diversity, inclusion, equity

La partecipazione della Gorman alla cerimonia di inaugurazione presidenziale non è un episodio sporadico nel panorama culturale statunitense. Essa riflette e incarna le tre parole chiave entrate da anni nei piani strategici di musei, fondazioni, e università: diversity, inclusion, equity (diversità, inclusione e equanimità). Su questi concetti sono basate le politiche di inclusione militante che, anche per mitigare i dissesti sociali creati dalla svolta razzista e classista del governo Trump, negli ultimi anni hanno visto una forte accelerazione.

Così, dopo un’inerzia decennale, musei e fondazioni culturali, centri di ricerca e università hanno riorientato i propri programmi, corsi di studi e piani occupazionali per diventare rapidamente più inclusivi per genere, per classe e per etnia. La rivolta contro il white privilege che ha movimentato le piazze con le manifestazioni del black lives matter ha anche cambiato il rapporto di forza all’interno dei musei e delle fondazioni dove l’egemonia del paradigma culturale bianco e di matrice europea è stato messo in discussione. Non si è trattato di buttar via lo studio dell’arte rinascimentale per far posto a quella chicana, ma piuttosto di trattare con uguale dignità forme espressive che fino a oggi erano rimaste fuori dal canone.  

La Andrew Mellon Foundation, un colosso della filantropia culturale statunitense, ha stanziato 70 milioni di dollari per il progetto Just futures, che si propone di finanziare iniziative intese a tracciare la strada per immaginare un futuro più equo. La Johns Hopkins University di Baltimora è una delle università che hanno ricevuto finanziamenti (oltre 4 milioni di dollari) per creare opportunità di apprendimento e di inserimento nel mondo della musica classica per bambini dei quartieri più disagiati. Il Monuments Project, un’altra iniziativa della Fondazione Mellon, stanzia 250 milioni di dollari per progetti dedicati a reinventare i monumenti pubblici e concepire spazi urbani più rappresentativi per tutti e memori di storie diverse.

Anche i musei partecipano in maniera attiva alla spinta “inclusionista”. La National Gallery di Washington, roccaforte dell’arte europea, ha appena assunto la prima curatrice di arte afro-americana, mentre il Metropolitan Museum of Art di New York ha istituito una curatela per l’arte nativa del continente. È una svolta epocale, veloce e rivoluzionaria.

Come tutte le rivoluzioni, però, questo rapido cambiamento miete vittime: meno spazio per l’arte europea, meno posti per i suoi esperti, meno finanziamenti per le acquisizioni, le mostre, i cataloghi, qualche opera che finisce in cantina, qualche statua che finisce in un fiume. Danno collaterale di un movimento che fondamentalmente mira a salvare la democrazia, poiché non vi può essere democrazia laddove non vi sia pluralità. Pluralità vuol anche dire sapersi mettere all’ascolto.

Integratori sociali

L’Europa lo ha capito e si sta muovendo in questa direzione. La European Cultural Foundation nel corso del 2020 ha varato una serie di bandi chiamati Culture of Solidarity dedicati alla promozione degli ideali di integrazione europea attraverso la formazione e la comunicazione. La stessa agenzia ha appena pubblicato un volume di studi intitolato Forces of Art che reclama a gran voce per le istituzioni culturali il ruolo politico di integratori sociali.  

Da noi questo dibattito è arrivato distante e svuotato di significato. Si è parlato della dittatura del pensiero unico, dell’idiozia della cancel culture, dell’ignoranza di giovani barbari iconoclasti che non sanno apprezzare il valore delle statue pubbliche. Ma non si è capito a fondo che questi fenomeni sono il segno, forse passeggero, di una trasformazione radicale e che la posta in gioca è altissima: da una parte la necessità di aprirsi alla molteplicità e alla complessità per salvare la democrazia, dall’altra il riconoscimento che l’arte e la cultura sono strumenti potentissimi di esclusione prima che di inclusione, e che per salvare la nostra eredità bisogna che questa non sia percepita come mezzo di oppressione o – al meglio – come irrilevante e insignificante.

Se accettiamo che la cultura è uno strumento forte di democrazia, allora è fondamentale capire come chiamare tutti a farne parte, aprendola a voci diverse, alle storie di tutti. Diamo poteri ai poeti. Diamo loro gli strumenti per essere capiti, facciamoli salire sui palchi presidenziali.

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