Qual è il ruolo della cultura nello sviluppo dei luoghi? Dalle aree marginali ai centri urbani, essa appare ora come un peso che frena, ora come una spinta che libera. Il suo valore cambia radicalmente a seconda dello scenario a cui si applica. Di come superare questa narrazione a targhe alterne si è parlato alla sedicesima edizione del festival di antropologia del contemporaneo Dialoghi di Pistoia
Da venerdì 23 a domenica 25 maggio 2025 si è tenuta la sedicesima edizione dei Dialoghi di Pistoia, il festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Caript e dal Comune di Pistoia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. L’edizione 2025 del festival aveva come tema “Stare al mondo. Ecologie dell’abitare e del convivere” e ha visto protagonisti antropologi, scienziati, filosofi, architetti, psicologi, scrittori, artisti, che hanno riflettuto sulle diverse modalità e culture dell’abitare il pianeta.
Filippo Barbera, professore di sociologia economica dell’Università di Torino, ha tenuto l'incontro Riabitare l’Italia. La diversità territoriale come risorsa sabato 24 maggio.
In un’analisi condotta negli anni ’50 del secolo scorso e poi pubblicata nel volume “Le basi morali di una società arretrata” (Edizioni di Comunità, 1976), lo scienziato politico Edward Banfield osservò l’organizzazione sociale di una piccola comunità lucana (Montegrano, nome fittizio per Chiaromonte). Banfield attribuì le difficoltà di sviluppo del Meridione rurale a una forma culturale che chiamò “familismo amorale”, ovvero una modalità di vita in cui l’unico principio guida è il vantaggio della propria famiglia ristretta, senza attenzione per l’interesse collettivo.
Questo atteggiamento, accompagnato da una sfiducia radicata nelle istituzioni pubbliche, alimentava fenomeni come il clientelismo e la corruzione, considerati strumenti normali per ottenere benefici privati.
All’opposto, nel libro "Il trionfo della città” (Bompiani, 2012), l’economista Edward Glaeser propone una visione entusiasta della condizione urbana. A suo giudizio, le città rappresentano il culmine dell’ingegno umano, in quanto spazi in cui l’alta densità di persone e relazioni favorisce scambi di idee, innovazione e crescita economica. L’interazione continua e ravvicinata rende i centri urbani luoghi fertili per la creatività, la produttività e persino la sostenibilità ambientale e i beni pubblici. Le città, secondo Glaeser, non vanno temute né contenute, ma rese più giuste, accessibili e resilienti, perché lì risiede la chiave del nostro futuro.
Il ruolo della cultura
Queste due letture rappresentano visioni opposte del ruolo che la cultura svolge nello sviluppo dei luoghi. Da un lato, essa è vista come un ostacolo, responsabile della stagnazione delle aree del margine; dall’altro, nei centri urbani, come un catalizzatore di innovazione e benessere. La cultura appare ora come un peso che frena, ora come una spinta che libera: il suo valore cambia radicalmente a seconda dello scenario a cui si applica, oscillando tra zavorra e propulsore, tra limite e possibilità.
Per superare questa “narrazione a targhe alterne” occorre mettere sullo sfondo il livello regionale dell’analisi territoriale per focalizzare distinzioni e immagini del paese più adatte alla sua diversità interna e che, più che seguire i confini amministrativi, permettono di scorgere i modelli insediativi, produttivi e funzionali dove persone, imprese, infrastrutture e patrimonio costruito si intersecano delineando forme spaziali riconoscibili a livello di meso e micro territori.
Ciò permette di osservare un’Italia cui vengono negate alcune funzioni pubbliche che le sarebbero proprie e che, senza un disegno politico esplicito, si avvia in buona parte verso un ulteriore declino demografico, economico e sociale.
L’Italia è il Paese il cui più pervasivo tratto unificante è la diversità territoriale: rilievi, monti, colline, picchi, valli, coste, dirupi, dorsali, litorali, precipizi, saliscendi. Poche grandi città, pochissime “metropoli”, molte città medie, una miriade di piccoli comuni, borghi, frazioni e reti di città. Campagne produttive che si spopolano e coste abitate per due mesi l’anno; quartieri centrali densi e periferie urbane desertificate. Il policentrismo è ovunque, anche dove non dovrebbe essere.
il malinteso delle città metropolitane
Quale immagine evoca alla mente la denominazione “città metropolitana”? Edifici, piazze e monumenti connessi da una rete di trasporto, sopraelevato e/o sotterraneo; conurbazioni segnate dall’alternarsi di case, edifici commerciali e raccordi stradali; centri abitati con una elevata densità demografica che sfilano nelle aree pianeggianti o collinari adiacenti.
In realtà, quelle che oggi in Italia sono denominate città metropolitane in seguito all’approvazione della legge n. 56/2014, nota come “Legge Delrio” sono, con pochissime eccezioni, costituite da percentuali rilevanti di Comuni montani e/o parzialmente montani. Genova, la “città di mare”, è parte dell’area metropolitana con il più alto indice di montanità del Paese.
Fatta eccezione per Milano e Venezia, tutte le città metropolitane italiane sono costituite da percentuali importanti di Comuni classificati come montani o parzialmente montani. Inoltre, sono circa 90 i capoluoghi di Provincia e Comuni con più di 50.000 abitanti che distano meno di 15 km da un’area montana, configurando di fatto un sistema nazionale “metromontano” di città e montagne diverse. Così, se letto attraverso le lenti della diversità territoriale, l’intero Paese appare come il mosaico di una geografica policentrica composta da sistemi territoriali rugosi, come definiti dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne.
Nelle sue diverse forme e manifestazioni il policentrismo territoriale italiano non è un fatto istituzionale e una priorità politica. L’azione pubblica, rigidamente impostata sui bisogni e i parametri dei “poli”, è in buona parte cieca rispetto alla diversità territoriale e indifferente alla curvatura territoriale della sua azione. La classe politica è sempre più “urbana” per nascita, interessi e priorità.
Le aree del margine devono essere liberate da una visione riduttiva che li rappresenta come luoghi della conservazione e “riserva di natura” per il loisir degli abitanti delle città. Quello che Antonio De Rossi ha chiamato “il paradigma della patrimonializzazione”, dominante nel corso degli ultimi tre decenni, è stato determinante nella formulazione di questa immagine del territorio e del paesaggio che mette in un cono d’ombra la sua diversità, radici produttive e capacità di generare ricchezza inclusiva.
Una nuova strategia di sviluppo dei luoghi
Da questo punto di vista, l’emergenza Covid-19 ha fornito la cornice di senso per l’avvio della riflessione su una nuova strategia di sviluppo dei luoghi, in un’ottica di integrazione e interdipendenza tra le diversità territoriali del policentrismo. In particolare, ha posto l’accento sull’urgenza dell’elaborazione di un piano condiviso, con una visione strategica, che apra una nuova fase di politiche territoriali, come suggerito dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne.
La rilevanza strategica del policentrismo appare difficilmente eludibile alla luce delle sfide epocali poste dal riscaldamento globale e dai suoi effetti attesi. È plausibile che per garantire adeguati standard di vita dei propri abitanti – in società con sempre più anziani, segnati da una molteplicità di patologie croniche – le città avranno sempre più bisogno delle aree del margine. Il riscaldamento del clima modificherà le opportunità e le preferenze degli attori, rafforzerà la “domanda di ambiente”, richiederà di investire sulla riduzione del consumo di suolo e su catene di approvvigionamento corte.
La qualità della vita di chi vive in città sarà sempre più funzione delle “capacitazioni” generate dai contesti non urbani, dalle risorse paesaggistiche ai servizi sociali, in un disegno guidato dalla ricerca di un nuovo benessere collettivo. In alternativa, le aree del margine saranno lasciate alle forze di mercato e alle capacità di spesa degli individui, creando ulteriori diseguaglianze socio-ambientali.
Del resto, la possibilità di riabitare la diversità dei luoghi diventa concreta quando si creano opportunità di lavoro, si favorisce nuova imprenditorialità, si garantisce l’accesso ai servizi essenziali e si presidia il valore pubblico dei luoghi. Questo cambiamento, ora, richiede un sostegno adeguato da parte dell’azione politica: le nuove rappresentazioni necessitano di una nuova rappresentanza che si faccia interprete e portavoce della capacità di aspirare delle comunità territoriali.
© Riproduzione riservata