Per raccontare l’epopea di Sanremo, Chiara Ferragni ha scelto Prime Video. Ci ha tenuti con il fiato relativamente sospeso per poi servirci ciò che con una certa ambiguità semantica oggi chiamiamo “docu-serie”, prodotti agiografici dove il protagonista dà la sua versione dei fatti.

Anche Ilary Blasi ha scelto questa via, passando per Netflix con il suo Unica e da Mondadori con Che stupida. Per quanto le tracce della verità – o di quella che lei dice essere la verità – fossero sparse come mollichine tra Belve, Dagospia, Verissimo, la consacrazione del racconto è avvenuta in quello special che sapeva tanto di televisione generalista, nonostante la confezione. Un divorzio sfiorato e un divorzio concretizzato sono stati i temi centrali dell’ultimo anno per due delle donne più popolari dell’universo mediatico italiano.

Anche Maria De Filippi si è unita al club del racconto autogestito: il lutto, dopo la morte di Maurizio Costanzo, lo ha voluto tenere per sé per un anno intero, continuando imperterrita con la sua dominazione del palinsesto. Stavolta però non è un documentario su una piattaforma a diventare luogo di riappropriazione narrativa, ma il palco del Teatro Parioli in Roma.

Maria e Fabio

Sobrietà e temperanza sono gli elementi principali dello stile defilippiano, in totale contrasto con la materia televisiva che plasma e modera con saggezza giuridica da oltre vent’anni e che, ascolti alla mano, continua a essere la punta di diamante di Canale 5.

Non è un caso che per condurre questo evento celebrativo abbia scelto Fabio Fazio, un presentatore con cui Maria condivide le stesse caratteristiche di stile: Fazio non fa polemica, non litiga con nessuno, sono gli altri semmai che litigano con lui.

È Nanni Moretti che lo provoca dicendogli «Ma lo dici a tutti che sono il tuo mito», mentre lui rimane impassibile abbozzando un’iperbole neanche troppo comica, «È dal ‘96 che non lo dico»; del resto, ci vuole una certa freddezza per intervistare il Santo Padre dallo stesso bancone su cui si adagierà come Paolina Borghese la sua Lucianina. E difatti, né De Filippi né Fazio faranno altro in questo Dedicato a Maurizio Costanzo oltre a scandire e mettere insieme i pezzi dell’omaggio, stando un passo indietro, o di lato, lasciando che siano gli altri a raccontare.

Personalità ingombranti

“Maurizio maestro mio”, recita il tatuaggio sulla nuca di Fabrizio Corona, grande assente del parterre della nostalgia catodica. La conformazione della serata sembra uno straordinario pastiche televisivo, un misto tra il tavolo di Che tempo che fa, il glass box di Fiorello, l’euforia di Buona Domenica, le emozioni lacrimose di Domenica In.

Non c’è Mediaset né Rai, il duopolio si è fuso come ai vecchi tempi degli speciali di Santoro e Costanzo negli anni del maxiprocesso, storico crossover tra Annozero e Costanzo Show. Fabrizio Corona, come nel suo stile, ha solo enfatizzato un concetto condiviso tra tutti i seduti su quelle sedie rosse disposte in semicerchio: Costanzo è maestro, guida, scopritore di talenti, assemblatore di novità, aggregatore di idee, e tutti i presenti gli devono qualcosa.

C’è Carlo Verdone, nella sua veste presente che lascia molto più spazio alla malinconia che alla comicità, che racconta del loro primo incontro. Dopo l’uscita di Borotalco, Costanzo chiede di lui, Verdone va nel suo studio e si porta con sé un regalo dall’esterno, ha pestato un escremento di cane e ha appestato la stanza.

Christian De Sica, maestro dell’umorismo scatologico, non perde l’occasione per sfoderare un suo cavallo di battaglia, «Avevi pestato una cacca di cane o ti eri cacato sotto?», e poi racconta di sé, «Maurizio mi ha detto che dovevo fare lo stronzo».

Accanto a loro ci sono Bonolis, Arbore, Venier, Mentana, tutti ridono a catena, ciascuno di loro porta il suo ricordo personale della seconda serata di Costanzo, luogo per eccellenza di inclusione, dice Mentana, che affanna per fare la battuta più divertente, ridendo delle sue stesse gag come uno zio un po’ egocentrico alla cena di Natale. Difficile mettere insieme delle personalità così ingombranti senza che si fagocitino a vicenda, eppure il metodo Fazio ha funzionato.

I Berlusconi

Fazio che, nella sua quieta direzione, incassa anche un invito ufficiale da Pier Silvio Berlusconi. «Vieni a fare un quotidiano da noi», dice etereo in collegamento da Cologno Monzese, dopo aver guardato dei video di repertorio che ritraggono i suoi padri, biologici e spirituali, Berlusconi e Costanzo.

C’è il Cavaliere con la sua famosa battuta autoreferenziale, «Senta, è odore di santità», ma anche uno scontro pacato tra i due, quando Costanzo fu tacciato di essere un telecrate, accusa respinta con valida argomentazione: a fare la telecrazia non sono io che sto davanti alla telecamera, ma tu che decidi quando accenderla.

Nel video racconto mancava un altro celebre scambio, quello successivo all’attentato del 1993 da cui scamparono Costanzo e De Filippi, in cui Berlusconi diceva ridendo sornione, «Con tutto quello che mi costi a Mediasèt», accento volutamente spostato sull’ultima sillaba, che fa tanto La Cinq, subito ripreso con serietà dal presentatore. Espressione severa, sguardo compito, è il metodo Berlusconi: dopo la barzelletta si torna a fare gli austeri.

Un’occasione

Cosa rimane di Maurizio Costanzo a tutti gli altri, noi gente comune che abbiamo guardato senza partecipare? Per me, nata nel 1992, Costanzo era il teatro del trash per adulti, o del camp rivendicato. Altro che Barbara D’Urso, il suo fritto misto, quel mix letale di Carmelo Bene e Alba Parietti, Vittorio Sgarbi e Valerio Mastandrea, è la quintessenza della televisione come mezzo di comunicazione verticale, dispensatrice di idee, volti, prodotti nell’era pre-internet.

Se passi dal Costanzo Show, ti stai giocando una possibilità, come il padre di Caterina Iacovoni, interpretato da Sergio Castellitto, in Caterina va in città. Lui, il suo manoscritto, la velleità, l’amarezza rabbiosa nel rendersi conto di non essere nessuno; e di quella mediocrità Costanzo ne sapeva fare spettacolo, trasformando il flusso televisivo para-teatrale in una commedia con ruoli e tempi ben scanditi, nonostante in apparenza fosse a briglie sciolte.

Talent scout, osservatore dalle mille intuizioni, Costanzo era lui stesso ingrediente del suo fritto misto, alle volte giornalista serio, alle volte presentatore burlone, altre comico trascinato da Fiorello o da un Cangurotto di Massimo Lopez.

La rimpatriata

Nel Dedicato a Maurizio Costanzo sono tutti visibilmente invecchiati, chi meglio e chi peggio. È una rimpatriata novecentesca piena di malinconia ma anche di allegria, in un certo senso, espressa dal bianco luminoso di Maria e dall’entusiasmo di essere di nuovo tutti insieme, come nei tempi in cui la tv era l’evento, l’unico schermo da guardare, e tutti loro i protagonisti da ascoltare. Ma che c’è di male nell’essere vecchi e ricordare?

Soprattutto per chi, come me e i miei coetanei, quegli anni gloriosi li ricorda poco e male, l’ecologia delle immagini è un’occasione per prendere coscienza del fatto che tutto quello che vediamo in video oggi, probabimente è già successo ieri, magari proprio al Costanzo Show. E se la televisione è il mezzo del passato, i Techetechetè non sono mai abbastanza.

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