Il romanzo, questo cannibale» diceva Virginia Woolf. Del resto ha sempre fatto questo, il romanzo: prendere pezzi di realtà, porzioni di mondo che fino a quel momento erano rimasti al di fuori dei confini letterari, e ingoiarli, masticarli, farli propri. La storia del romanzo è la storia di questa progressiva estensione di ciò che si può raccontare, di ciò che è degno di essere condiviso.

E quindi non più le storie di divinità e eroi, ma le vicende di un hidalgo pazzo, di un mercante su un’isola deserta, di una fedifraga di provincia. Esistenze qualsiasi, desideri comuni, esperienze quotidiane. Così nel romanzo entrano la noia del matrimonio, i tradimenti, il sesso, il potere, le violenze coloniali, i mezzi di comunicazione, la televisione… E internet? Se il romanzo si nutre dell’esperienza, cosa succede quando l’esperienza avviene online? Quanto è “reale” quest’esperienza? Ci penso ogni volta che cannibalizzo un pezzettino della mia esperienza per darla in pasto alle piattaforme social, per fare della mia “vita segreta” un invitato a quel matrimonio da incubo tra orrore e divertimento che è internet oggi.

Sally Rooney

In Dove sei mondo bello di Sally Rooney, i social non sono mai nominati e le due protagoniste si scambiano lunghissime mail che mimano il romanzo epistolare settecentesco (a proposito del romanzo che cannibalizza anche le forme precedenti, e pure sé stesso). Ma anche se internet sembra rimosso, i suoi personaggi sono in realtà espressione purissima di un tempo dominato dalla rete: non solo perché parlano, parlano costantemente, riflettono sull’effetto delle loro parole su di sé e su gli altri, come se quelle parole fossero scritte e loro ce le avessero davanti, come se fossero perennemente all’interno di un flusso di messaggi.

Anche perché lo sono: Rooney è bravissima a raccontare i destini di soggetti che sono allo stesso tempo presenti e assenti, che sono qui, davanti a te, ma nel medesimo istante anche altrove, impegnati in altre quattro conversazioni contemporaneamente, distratti a scrollare la timeline di un social, impegnati a desiderare sia te sia il tipo su Tinder che stanno guardando sotto il tavolo. Ecco il punto. Tutto sembra avvenire nello stesso momento, la tragedia e le cazzate, la guerra e gli scandali dei vip, polemiche violentissime che si dimenticano la mattina dopo e battute che diventano “virali”. Il desiderio segue mille rivoli che diventano fiumi che si intrecciano, disperdono e incrociano in una palude difficilissima da attraversare.

Patricia Lockwood

Patricia Lockwood ha provato a restituire questo senso di contemporaneità in Nessuno ne parla, appena tradotto da Mondadori, di gran lunga il romanzo degli ultimi anni che più di tutti trasmette l’intensità emotiva e intellettuale di “stare su internet”. Senza nascondere la cosa più importante: stare su internet è figo! È eccitante, è la cosa più stimolante a livello cognitivo che ci sia in circolazione.

Per questo dà dipendenza, come la droga. Composto da brevi paragrafi, a volte della lunghezza di un tweet a volte poco più, aforismi, immagini testuali, il libro della Lockwood riesce a trasformare i meme in linguaggio letterario. Prende tutto questo che è quanto di più effimero, passeggero, istantaneo possa esistere (gli slang di microcomunità, o i tormentoni che riempiono la rete per un mese a distanza di un anno appaiono già muti e incomprensibili come una tavoletta sumera) e lo fa sbattere, nella seconda parte del romanzo, contro una vicenda tragica, la più tragica possibile (la sorella della protagonista resta incinta di una bambina che però soffre della sindrome di Proteo – una malattia genetica che porta alla crescita incontrollata di diverse parti del corpo – e che la condurrà alla morte). L’effetto è straniante e potentissimo: cosa sono le nostre vite se non questo impasto di effimero, stupido, noioso, passeggero e di tragico, ineludibile?

«Scheletrini di autofiction»

Joyce Carol Oates, forse polemizzando (subtweettando si dovrebbe dire nel gergo del social) proprio con la Lockwood, ha scritto in un tweet: «Sono cresciuta leggendo grandi romanzi pieni di ambizioni, idee e immaginazione (Dostoevskij, Woolf, Joyce, Faulkner) e ora vedo lodati piccoli scheletrini di “autofiction” con tanti spazi bianchi tra i paragrafi per far sembrare il libro più lungo…». Senza accorgersi che, scrivendolo su Twitter, lo stava dicendo proprio lì dove tutti sono impegnati ogni giorno, ogni secondo, a lucidare i propri «scheletrini di autofiction».

«Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti» scrive Shoshana Zuboff. Trasformare l’esperienza in qualcosa d’altro (nello specifico in valore): questo fanno le piattaforme. Ma chi aveva il monopolio della trasformazione dell’esperienza in altro, era il romanziere. Era la sua specialità. Nel 1927, E. M. Foster in Aspetti del romanzo parlava di “rotondità” di un personaggio di finzione, della sua tridimensionalità, del suo realismo. Quasi un secolo dopo, le piattaforme costruiscono realistici e “rotondi” doppioni digitali delle nostre vite, grazie al nostro inesausto lavoro di egotici autonarratori.

Tutto questo oggi un romanziere lo può vivere come un generale sciogliete le righe, un malinconico abbandono della propria ragione d’essere, al più come un dignitoso ritiro nelle rassicuranti forme narrative di ieri (soluzione molto scelta qui da noi).

Oppure come la più eccitante possibilità che gli si potesse dare: continuare a essere un insaziabile cannibale.

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