Quando, sul finire degli anni Settanta, Salman Rushdie cominciò a metter mano all’opera che sarebbe diventata il suo capolavoro, I figli della mezzanotte, aveva per la mente – tra l’altro - i grandi romanzi russi del XIX secolo, i romanzi inglesi del XVII e del XVIII secolo, Rabelais, Gunther Grass, Gabriel Garcia Marquez, i Buddenbrock di Thomas Mann, ma anche il Mahabharata e Le mille e una notte, l’epica e la grande tradizione orale indiana. E, visto che quello che stava scrivendo era un romanzo ambientato a Bombay e su Bombay, sarebbero stati inevitabili richiami a Bollywood e ai suoi film. Per cui alle influenze di carattere letterario si sommarono anche quelle cinematografiche.

Il libro voleva raccontare un pezzo importante della storia recente, ovverossia la caotica, tragica transizione dell’India da colonia a nazione indipendente e la catastrofe della Partizione. La mezzanotte cui il titolo si riferiva è quella del 14 agosto 1947, data ufficialmente prestabilita per il passaggio dei poteri, e alla quale aveva fatto cenno uno dei padri dell’India indipendente - Jawaharlal Nehru - in un suo famosissimo discorso: «Allo scoccare della mezzanotte mentre il mondo dorme l’India si sveglierà alla vita e alla libertà».

Insomma, quello che Rushdie aveva in mente era un romanzo ambiziosissimo nel quale memoria e politica, amore e odio si mescolavano praticamente in ogni pagina. Il guaio fu che a quei tempi (parliamo del finire degli anni Settanta) era ancora un autore alle prime armi, poco conosciuto, circondato da quel malcelato scetticismo che di solito costituisce il pane quotidiano degli aspiranti scrittori: insomma, non fu un’impresa per nulla facile e per portarla a termine ci mise parecchi anni.

Successo travolgente

Poi, finalmente, nel 1981 il libro venne pubblicato in Gran Bretagna da Jonathan Cape e il successo arrivò immediato e travolgente: oltre un milione di copie vendute solo nel Regno Unito, decine di edizioni nelle più svariate lingue del mondo, riconoscimenti letterari di altissimo livello, tra i quali il prestigioso Booker Prize. All’improvviso quel trentaquattrenne semiesordiente, nato nel 1947 a Bombay da una famiglia colta di musulmani originari del Kashmir, formatosi nelle migliori scuole del Regno Unito, si trovò – come si suol dire – catapultato al centro della ribalta.

Per nulla frenato dalla fama e dalla notorietà di cui godeva, nel giro di pochi anni Rushdie scrisse La vergogna (un romanzo che per certi versi raccontava la stessa vicenda de I figli della mezzanotte, ma dal punto di vista pakistano), e Il sorriso del giaguaro – una sorta di diario di un viaggio di tre settimane nel Nicaragua sandinista dell’epoca.

Nel settembre 1988 venne pubblicato il suo romanzo I versi satanici ispirato alla vita del profeta Maometto che ottenne ottime recensioni e che venne selezionato tra i finalisti del Booker Prize. Sfortunatamente, però, alcuni esponenti islamici bollarono il romanzo di blasfemia. Ai loro occhi molte delle sue pagine contenevano gravi offese nei confronti della religione e del profeta dell’islam. E purtroppo, come vuole la logica della comunicazione globalizzata – già in auge all’epoca – nel giro di poco tempo il caso divenne una specie di valanga che col passare delle settimane e dei mesi assunse dimensioni sempre più terribili, rimbalzando tra i quattro angoli del mondo.

Nel novembre 1988 il libro fu bandito in Pakistan, nel febbraio del 1989 ci fu una protesta contro Rushdie a Islamabad nel corso della quale furono uccisi sei manifestanti, poi il libro fu bandito in India e boicottato nel Regno Unito. Il culmine di questa escalation si ebbe nel febbraio del 1989 quando la guida politica e spirituale dell’Iran, l’ayatollah Khomeini emise una fatwa con la quale si condannavano a morte in contumacia l’autore e i suoi editori.

Esistenza clandestina

Rushdie si trovò costretto ad accettare di vivere una esistenza semiclandestina sotto la protezione della polizia.

Nel luglio del 1991 dapprima il suo traduttore italiano, Ettore Capriolo, venne gravemente ferito a casa sua a Milano, poi il traduttore giapponese di Rushdie fu ucciso a coltellate nei dintorni di Tokyo. Altri terribili episodi di violenza in Norvegia e in Turchia colpirono persone legate alla pubblicazione de I versi satanici.

Nel giugno 1989 morì l’ayatollah Komehini. Salman Rushdie continuò a vivere al riparo e a pubblicare romanzi, raccolte di saggi e di racconti, storie per bambini e nel 2000 si trasferì a New York per poter condurre una esistenza meno claustrofobica. Poi ci fu l’11 settembre del 2001.

Poi nel gennaio 2015 ci furono i morti di Charlie Hebdo.

Poi il tempo passò. E la Storia parve andare avanti. Più o meno.

E arriviamo a ieri, giornata in cui Salman Rushdie è stato accoltellato ad un evento nello stato di New York. Perché? Perché Rushdie?

Da sempre l’universo della letteratura è altro rispetto al mondo della politica e del potere. Ogni opera letteraria ci racconta di uomini, di paesi e di epoche diversissimi tra loro, e ogni storia nella sua unicità e particolarità mira a restituire in qualche modo al lettore il senso della universalità dell’esperienza umana.

Per questo la letteratura non conosce confini, se non quelli linguistici che - a differenza di quelli geopolitici - sono occasioni per consentire a tradizioni diverse di venire a maturazione per poi provare a incontrarsi e chissà? anche mischiarsi tra loro. L’opera di Rushdie, tutta l’opera di Rushdie è una testimonianza di questo: le sue opere non solo sono sospese in equilibrio tra continenti e culture assai lontani tra loro (dal Mahabarata ai Buddenbrock, da Rabelais a Garcia Marquez), ma sono anche ricchissime di suggestioni provenienti dal cinema, dall'arte e da molti altri campi.

Il linguaggio è coraggio

Rushdie forse rappresenta oggi una delle voci più limpide, colte, affascinanti e divertenti di questo universo che non conosce confini, che non è sottoposto alle leggi del potere, della politica o delle religioni: da decenni lavora con coraggio e stupefacente energia a esplorare i mille angoli della Storia e a restituirceli in forma di narrazioni. Forse Rushdie paga il fatto che l’universo della Letteratura spesso si trova in rotta di collisione con l’altro universo, quello della politica e del Potere. Ne i versi satanici, Rushdie scrive: «Il linguaggio è coraggio: la capacità di concepire un pensiero, di tradurlo in parole, e così facendo di dargli verità».

Forse Rushdie ha pagato questo coraggio. Forse anche lui come Saleem, il protagonista de I figli della mezzanotte «è ammanettato alla storia». Ma – come scrive in un recente intervento su “LitHub” – «la storia non è scritta nella pietra. Non è né inevitabile né inesorabile. La storia è la conseguenza fluida, mutevole e cangiante delle nostre scelte e quindi la responsabilità, anche morale, è nostra. Dopotutto: se non è nostra, di chi è? Non c’è nessun altro qui. Ci siamo solo noi».

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