Il testo è tratto dall’introduzione di Fabio Cantelli Anibaldi al suo SanPa, madre amorosa e crudele pubblicato da Giunti editore.


Sono un figlio ripudiato di Sanpa, madre amorosa e crudele. E la ragione del ripudio sta in questo libro. Per questo, a mo’ d’antefatto e non di prefazione, voglio raccontarne la storia. Una storia insita nelle pagine a seguire come un frutto nel seme, una storia maturata, senza che me ne rendessi conto, all’ombra delle parole con cui ne raccontavo un’altra.

Ho scritto questo libro negli ultimi mesi della mia permanenza a San Patrignano, tra il dicembre del 1994 e l’agosto del 1995. Nelle mie intenzioni doveva essere una sorta di saggio sulla tossicodipendenza e su quanto fosse difficile venirne a capo. Volevo spiegare cosa accadeva davvero lì, a Sanpa, perché non ne potevo più delle descrizioni che mi toccava leggere ogni mattina sui giornali in quanto capoufficio stampa della comunità. M’indignavano quelle che dipingevano Sanpa come una riedizione di Auschwitz, ma pure m’irritavano, ormai, quelle che la celebravano come un posto unico al mondo per calore e umanità, guidato da una persona altrettanto unica: Vincenzo Muccioli, taumaturgo, santo e campione di bontà.

Volevo spiegare al mondo che Sanpa non c’entrava nulla con quelle oscene o ridicole caricature, e pensavo che pochi meglio di me, avendoci vissuto dieci anni, potevano farlo. Presto però mi resi conto che la scrittura mi stava portando lontano dal luogo dove, con voce ferma e sussiegosa, si espongono idee e delineano teorie, mi conduceva là dove si viene a sapere quel che si sa solo dopo averlo scritto, e non è affatto detto che coincida con quello che si credeva di sapere. Ecco, per me quello è il luogo della letteratura, plaga dove ti vengono incontro fantasmi e figure mai viste né immaginate, dove la realtà coincide con quella che a prima vista pare una deformazione o un’allucinazione, mentre è una visione senza mediazioni e filtri della realtà medesima, un’epifania che la parola più che dire evoca, porta in presenza.

Assassinio morale

Questo libro, scritto in solitudine la sera nel mio ufficio mentre la comunità era in parte nel cinema-teatro a guardare un film, in parte impegnata a riassettare la gigantesca sala dove mangiavamo tutti assieme – ed eravamo quasi duemila, ormai – in parte a letto per svegliarsi all’alba e recarsi alle stalle e alle scuderie, questo libro si conclude nei primi giorni di settembre del 1995, quando Vincenzo Muccioli stava molto male e avevo già deciso, anche grazie alle verità scoperte scrivendo, che senza di lui non aveva più senso per me restare lì.

Il primo a leggerlo è stato uno psicanalista di Riccione, Antonio Bondì, conosciuto a una conferenza cui mi ero recato per intervistare lo psichiatra Eugenio Borgna, di cui avevo appena letto un libro folgorante dal titolo quanto mai consono agli stati d’animo che avevano scandito la parte finale del mio soggiorno a Sanpa: Come se finisse il mondo.

Bondì ne è entusiasta e mi propone di portarlo a un editore suo amico che vive a Rimini: Mario Guaraldi. Guaraldi sulle prime recalcitra – «Non ne posso più di ricevere testi su San Patrignano!» – ma a fronte dell’insistenza di Bondì prende il dattiloscritto e promette di dargli un’occhiata. Il giorno dopo mi telefona: «Aveva ragione il nostro amico, il tuo libro ha qualcosa di speciale, per scrittura e profondità», quindi osserva che, fosse per lui, lo pubblicherebbe all’istante, ma la sua casa editrice è troppo piccola per garantire al testo la diffusione che merita. Al che decide di portarlo a Milano e proporlo alla grande e rinomata casa editrice con cui collabora come talent scout di giovani scrittori inediti.

Passa qualche giorno e Guaraldi si rifà vivo: i milanesi sono entusiasti, non stanno nella pelle, vogliono pubblicare subito! Precisa poi la tiratura e i soldi che mi avrebbero dato come anticipo sui diritti d’autore. Trasecolo, mi sembra di sognare: «Ma stai scherzando, Mario?».

La faccio breve. Due giorni prima della morte di Vincenzo Muccioli, uomo che ho amato e perciò raccontato nella sua complessa umanità, esuberante e insieme fragile, faccio i bagagli e me ne vado. La meta è Torino, dove mi attende una storia d’amore che ha mitigato, talvolta cancellato, le angosce di quegli ultimi mesi. Un capitolo della vita si chiude ma al contempo uno si apre: una nuova città, una donna meravigliosa, un libro pubblicato a breve e con gran dispiego di forze da un’importante casa editrice.

Ancora sintetizzo (questa storia l’ho già compiutamente scritta nel testo che vado scrivendo da tre anni, composto dalle mille storie di cui è fatta qualunque vita). È un tardo pomeriggio d’ottobre quando m’infilo in una cabina telefonica e, come stabilito, chiamo Guaraldi per sapere il giorno esatto in cui recarmi a Milano per la firma del contratto. Dal tono della voce capisco subito che qualcosa è andato storto: i milanesi di colpo si sono raffreddati, passando dall’entusiasmo alla perplessità. «Non capisco cosa gli è successo» osserva sconcertato Guaraldi «sono arrivati a dire che il libro è troppo duro per essere pubblicato sotto Natale, quando i lettori vogliono storie a lieto fine».

Con una fatica immane, come partorendo le parole una a una, spiego a Guaraldi il perché della retromarcia: di sicuro, saputo che il mio testo era in mano a un importante editore, la comunità è passata all’attacco mobilitando i ricchi amici milanesi: «Questo libro non s’ha da stampare!». E stavolta non c’è stato nemmeno bisogno di mandare i “bravi”, essendo il padrone della casa editrice amico degli amici, nonché l’uomo più potente e ricco d’Italia. Guaraldi è indignato: «Nemmeno più in Russia, accadono cose del genere!». E dichiara cosa intende fare: tornare a Milano e restarci finché non avrà trovato un altro editore disposto a pubblicare.

Il giro si rivela più breve del previsto e qualche giorno dopo vengo a sapere che le mie pagine hanno trovato ospitalità presso Frassinelli. Tiro un sospiro di sollievo e mi convinco che in fondo è una fortuna: Frassinelli è un editore più piccolo e di più limitati mezzi ma con una forte impronta letteraria e un catalogo di tutto rispetto. Avrò meno pubblicità e meno lettori, ma che importa: ciò che conta è pubblicare e riavermi almeno in parte dall’assassinio morale commesso dalla comunità, dalla mia Sanpa ormai solo crudele.

Parlo di “assassinio morale” perché la comunità sapeva che scrivere era per me un atto costitutivo: io non sono “uno che scrive” ma “uno che viene scritto”, fatto e disfatto dalla propria scrittura nel suo imprevedibile sviluppo d’incipit abortiti e finali naturali, revisioni e correzioni, grazia e pesantezza. Fatica ed estasi, insomma. E il primo a saperlo era proprio Vincenzo, che se fosse stato vivo – mi dico – si sarebbe rifiutato di pugnalarmi in quel modo vigliacco, alle spalle. E poi il libro non è affatto “contro” San Patrignano perché Sanpa è stata una parte importante, per molti versi determinante, della mia vita, e solo un idiota può essere contro la propria vita o pensare di amputarne o manipolarne parti sconvenienti e dolorose: sono proprio quelle, spesso, a rivelarti a te stesso, a farti capire chi sei.

La pubblicazione

Inizia così l’avventura con Frassinelli, per me indissolubilmente legata alla figura di Daniela De Rosa, l’editor che la casa editrice mi mette a disposizione. Daniela è sensibile, acuta e pure avvenente, il che non guasta. Legge il libro come vorrei fosse letto, ne riconosce la qualità di scrittura, al di là del tema di perdurante attualità (conclusa la stagione dei processi, ci s’interroga, morto il fondatore, sul futuro della comunità) e mi dà un consiglio che subito recepisco: aggiungere al testo due capitoli (“Quadri comici di una disperazione” e “Un finale”) per raccontare il clima di sospetto, congiura e angoscia in cui il testo è venuto alla luce, nella solitudine del mio ufficio.

Ora penso che senza quei due capitoli il libro sarebbe, non dico incompleto, ma molto più povero. È sempre Daniela a suggerirmi d’immaginare un titolo che non contenga riferimenti diretti alla droga o a San Patrignano. Convengo, perché se è vero che io racconto i miei anni là, è anche vero che, attraverso San Patrignano, racconto la vita, la vita assediata e assetata d’infinito e perciò esposta a ogni genere di guai, quella vita di cui ciascuno ha sentito il brivido nell’adolescenza, quando vuoi distinguerti dagli altri ma al tempo stesso, per tua fortuna, non hai ancora un “io” definito, corazza che prima ti protegge poi ti sottrae ai richiami dell’Altro e dell’Oltre.

E tuttavia di titoli consoni, convincenti, non riesco a trovarne e allora un giorno mi viene in soccorso lei, Daniela: mi telefona da Milano e mi parla di una canzone di Patti Smith che contiene un’espressione che l’ha molto colpita e che potrebbe funzionare anche come titolo della nostra opera: La quiete sotto la pelle. «Bello» commento.

«Sì, direi che l’abbiamo trovato, il titolo: La quiete sotto la pelle». Daniela scriverà anche con nitida essenzialità i testi della quarta di copertina, inserendo nell’aletta posteriore una citazione di Kafka, nientemeno: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli sul cranio perché dunque lo leggiamo?». Anche di questo le sarò eternamente grato: di Kafka, inopinatamente, non avevo ancora letto nulla, salvo ai tempi del liceo riduzioni antologiche della Metamorfosi e del Processo. Diventerà uno dei miei scrittori d’elezione, di quelli che non ti stanchi mai di amare perché a ogni lettura ti riservano una sorpresa, una rivelazione.

La quiete sotto la pelle esce il 6 maggio del 1996. San Patrignano è ormai sparita dal discorso pubblico, dopo le precedenti overdose, ma forse non è solo per questo che il libro passa quasi inosservato, salvo qualche sciatta recensione qua e là. Forse siamo noi – io e l’editore – ad averne sopravvalutato la forza letteraria, forse è solo un memoir scritto molto bene, ma la letteratura, quella è un’altra cosa… Sta di fatto che dopo La quiete non riuscirò più a scrivere nulla o comunque nulla più pubblicherò. Testi che si perdono su binari morti o che, pur approdando a una meta, mi danno un senso d’incompiuto, di forzato, di letterario.

Come quei mediocri attori che, non sapendo recitare, danno l’impressione di farlo. Unica soddisfazione, nel 1999, trovare La quiete ampiamente citata in un libro del grande Eugenio Borgna: Noi siamo un colloquio. Vedere il mio nome citato in bibliografia tra Nietzsche, Proust e Rilke mi dà una certa vertigine ma è un fuoco di paglia: La quiete riprecipita nell’oblio cui forse era destinata, oblio della memoria pubblica e anche della mia.

Il documentario

Passano i mesi, gli anni, i decenni, finché un giorno d’ottobre del 2019 ricevo una telefonata da Carlo Gabardini, uno degli autori di SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano la docu-serie mandata in onda di recente su Netflix. Carlo mi spiega che in una biblioteca di Coriano, paese nei dintorni della comunità, ha trovato una copia superstite del mio libro, ha iniziato a leggerla e non è riuscito più a staccarsene. Ed eccolo propormi una lunga intervista sulla mia esperienza là, tanto più avendo essa coperto quasi tutto l’arco temporale che il documentario intende raccontare.

Sulle prime esito, ma presto mi rendo conto di parlare con una persona seria e preparata, una persona che vuole capire e che nel libro ha trovato una mappa utile a orientarsi in una storia molto aggrovigliata. Accetto, dunque, ma quando gli chiedo luogo e giorno dell’intervista mi risponde placido: «Dopodomani a Rimini». «Come, dopodomani a Rimini! Avrei anche un lavoro, Carlo!». Al che lui insiste, dice che la mia testimonianza è fondamentale e lo ribadisce con tale ardore che alla fine cedo: a costo di fare i salti mortali quel giorno sarò a Rimini. Per ultimo chiedo su quali temi verterà la nostra conversazione, e Carlo risponde che ovviamente saranno quelli del libro. «Ma è un libro di venticinque anni fa, come faccio a ricordare quello che ho scritto!».

Chiusa la telefonata mi rendo conto d’essermi cacciato in un bel guaio, anche perché la mia unica copia l’ho prestata a un’amica di Milano momentaneamente all’estero. Per fortuna, il giorno dopo, un amico torinese rimedia portandomi la sua. La sera inizio una lettura che si protrae per tutta la notte. Esperienza a dir poco sconvolgente: rileggendo quelle pagine avverto le stesse emozioni che avevo provato nello scriverle, a conferma di quanto mi ha fatto intendere il testo che m’incalza ormai da tre anni, che alla Quiete è in parte legato. Ossia che accanto al tempo lineare e a quello ciclico ne esiste un terzo: il tempo verticale.

Tempo degli eventi che non passano, eventi accaduti come gli altri nel presente ma che più degli altri ci hanno scosso, emozionato, segnato in profondità. Ecco, la memoria di Sanpa, grazie anche al lavoro di riflessione e scrittura di cui è stata oggetto, appartiene in gran parte al tempo verticale, ombra che ti segue dovunque. Sta di fatto che, finita la rilettura, mi lascio cadere sul letto consumato dall’emozione e penso, un attimo prima di spegnere la luce: «Non cambierei una virgola».

Il resto è storia recente, anzi cronaca, direi. A Rimini trovo professionisti eccelsi e persone di rara gentilezza e capacità d’ascolto. Persone che amano i dubbi e rifuggono le certezze: compagni di viaggio, insomma. Ne cito solo alcuni sperando di non far torto agli altri. Oltre a Carlo, che mi farà la prima delle due interviste, la regista Cosima Spender e suo marito, Valerio Bonelli, responsabile dell’editing. Poi Christine Reinhold, Paolo Bernardelli e Andrea Romeo.

Non fosse stato per loro non avrei avuto la forza di parlare per sette ore davanti a una telecamera, seduto sul ciglio del letto di una spoglia stanza d’albergo, perfetta sintesi dello stanzino in cui mi chiuse Vincenzo e delle mille stanze d’albergo – meno lussuose, in verità – della mia vita tossica e randagia.

Lunghe attese

Ecco, credo di aver detto tutto. Posso solo aggiungere due cose, anzi tre.

Primo: come quegli eventi continuano ad ardere nella memoria del tempo verticale, così le riflessioni di quelle pagine sulla droga e il nichilismo d’occidente mi sembrano non aver perso nulla della loro intensità. Sicché mi chiedo, pensando all’indifferenza di cui sono state oggetto, se non derivi dal loro aver troppo anticipato i tempi, dall’essere nate per così dire postume.

Secondo: d’accordo con l’editore ho deciso di cambiare il titolo. Ma Madre amorosa e crudele è pur sempre quello proposto ventisei anni fa al potente editore milanese, entusiasta all’idea di pubblicare prima che l’intervento della comunità lo facesse recedere. Sicché il cambiare è in realtà un tornare all’origine, a una definizione che portava e porta tuttora il peso dei miei dieci anni là dentro, con i loro splendori e i loro tremori, con tutta la loro irriducibile ambiguità.

Terzo, ancora sul concetto di “postumo” e posterità. Un’amica mi fa notare che altri libri sono stati pubblicati due volte avendo avuto, in prima battuta, poco o nessun riscontro. Ma si è trattato sempre di opere postume, pubblicate dopo la morte dell’autore, a solo vantaggio degli eredi e di chi ha potuto scoprire il misconosciuto valore di uno scrittore. Osservazione amichevolmente perfida cui ho risposto dicendo che la cosa non può valere per chi, come me, si è sentito sempre fuori tempo e fuori luogo, apolide dell’esistenza per il fatto stesso d’esser nato postumo, in bilico tra l’estasi dell’istante e il fuoco di desideri quasi sempre delusi, desideri la cui realizzazione avrebbe comunque comportato lunghe attese, come i ventisei anni per veder ripubblicate queste memorie della mia San Patrignano: la Sanpa che ti fa e ti disfa, se vuoi essere altro da lei, la Sanpa madre amorosa ma anche crudele.


Fabio Cantelli Anibaldi è autore del libro Sanpa, madre amorosa e crudele, edito da Giunti

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