Il sapore del futuro: quanto pesa il gusto nuovo che si coltiverà

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. I contadini custodi sono persone che hanno trasformato i propri terreni in musei a cielo aperto. Proteggono alberi che danno frutti all’apparenza esotici, in realtà antichissimi, quasi dimenticati. Un atto sovversivo rispetto alla necessità di creare nuovi prodotti resistenti agli effetti dei cambiamenti climatici, scarsità idrica e patogeni in evoluzione. Sostengono che il gusto di questi nuovi frutti non ha niente a che vedere con certe varietà di ciliegie che si fregiano di coltivare nei propri “campi collezione”. Eppure, di frutta, ortaggi e piante innovative c’è un disperato bisogno. Lo dimostra, ad esempio, Chiquita che, insieme ai partner del progetto Yelloway KeyGene, ha creato Yelloway One (YW01), un ibrido di banana resistente al Tropical Race 4 (Tr4) e parzialmente resistente al Black Sigatoka, due delle malattie fungine più devastanti che minacciano la produzione globale di banane. Ma che ruolo ha il piacere del palato nella progettazione di questi nuovi frutti? L’incognita dazi pesa sulla frutta. I mancati guadagni Usa ricadranno sull’Europa Come nascono i nuovi frutti Il breeding, o miglioramento genetico, non è un’invenzione moderna, ma un’attività antica quanto l’agricoltura stessa. Uomini e donne hanno cominciato a selezionare e moltiplicare le piante che si dimostravano più adatte al territorio, al clima o semplicemente più buone da mangiare. Esperto di uva da tavola, Rocco Perniola, tecnologo CREA Centro di Ricerca Viticoltura ed Enologia Sede di Turi, nota che anche per questo prodotto si è iniziato con il distinguere le viti che producevano acini più grandi e consistenti, ideali per il consumo diretto, da quelle con acini più piccoli, meno polpa e più succo, perfetti per fare il vino. «Per secoli, l’evoluzione varietale è andata avanti per "salti": quando un viticoltore scopriva casualmente una pianta con caratteristiche più interessanti, decideva di propagarla». La svolta è avvenuta quando la selezione è diventata scientifica. Tra le organizzazioni attive nei programmi di breeding c’è il Consorzio Italiano Vivaisti (CIV). Nata nel 1983 dall’unione degli sforzi di coltivatori desiderosi di ottimizzare le proprie produzioni, l’organizzazione collabora anche con realtà come l’Università di Bologna in selezioni fruttifere. Da questa partnership è nata, ad esempio, la varietà di pero PE1UNIBO Lucy Sweet. Elena Piccoli, Intellectual Property Manager del CIV, spiega che i programmi di breeding partono dalla definizione degli obiettivi: resistenza alle malattie, qualità organolettiche del frutto, produzione e shelf– life. Il processo, che può richiedere anche vent’anni fino al lancio commerciale, procede con incroci mirati tra varietà con caratteristiche complementari. Nell’ambito dell’uva da tavola, una pianta potrebbe dar vita ad acini molto grandi e l’altra potrebbe essere resistente alle malattie. Incrociandole, si cerca di ottenere progenie che condensi in sé le caratteristiche positive. Dalle migliaia di piantine ottenute, in poche avanzano arrivando al produttore. Il 95% delle selezioni viene scartato nella fase iniziale, quella agronomica. Della percentuale restante, va sempre valutata l’adattabilità nei vari areali di produzione. In più, anche le selezioni “agronomicamente valide” potrebbero non arrivare a scaffale perché non conformi a caratteristiche richieste dal mercato come forma del frutto, colore, pezzatura, nonché gusto. Meloni, manghi e uva pagati a peso d’oro: il caso giapponese e noi «Se alcune caratteristiche potrebbero essere interessanti in determinati mercati – sottolinea Piccoli – le selezioni vengono inviate in sperimentazione anche a partner internazionali. Se la selezione conferma queste caratteristiche anche altrove e se c’è interesse commerciale alla produzione in un determinato mercato, allora si procede con moltiplicazione, registrazione e protezione legale della privativa vegetale/marchio commerciale, fino alla concessione della varietà in licenza ad un partner commerciale che ne cura la diffusione sul mercato». «Molte varietà che oggi consideriamo “storiche” e tradizionali, protette da marchi come l’IGP, sono in realtà il frutto di questa attività di breeding», nota Perniola. «Un esempio iconico è la varietà di uva Italia. È nata da un incrocio realizzato nel 1911 grazie al lavoro del genetista Alberto Pirovano, che incrociò la varietà Bicane con il Moscato d’Amburgo. Il breeding, quindi, non è altro che la continua evoluzione del nostro patrimonio agricolo, un processo che ci ha dato i frutti della tradizione e che oggi ci permette di creare quelli del futuro». Il frutto del drago che viaggia lungo la Via della Seta L’economia del breeding Creare un nuovo prodotto ortofrutticolo richiede un ampio investimento sia in termini di tempo che di risorse. «Per fare un esempio, nel caso del melo servono almeno 2–3 anni prima che una pianta produca frutti e almeno 5–6 anni per valutare la produttività – sottolinea Piccoli – Questo significa che l’azienda che adotterà quel prodotto deve sostenere costi di impianto, selezione e gestione per diversi anni senza ritorno immediato. Una volta ottenuta la varietà, non basta metterla sul mercato. Occorre costruire un progetto di filiera che coinvolga agricoltori, produttori, commercianti e GDO, affinché il consumatore percepisca la novità e la qualità del prodotto. Il breeder, per rientrare dell’investimento, punta quindi su un sistema di royalties proporzionale all’importanza del progetto». In alcuni casi esistono incentivi o sostegni pubblici, soprattutto per progetti che puntano alla sostenibilità, ma non sempre sono sufficienti a ridurre significativamente il rischio dell’operazione. Oltre gli eventi estremi e gli allevamenti intensivi: il futuro del cibo è nelle leguminose Gusto, giudice supremo Una nuova varietà ha successo solo quando porta valore all’intera filiera: il produttore apprezza la facilità di coltivazione, il distributore riesce a venderla con facilità, il consumatore la sceglie perché è disposta a pagare un po’ di più per un frutto migliore, più sostenibile e di maggiore qualità. Ma in questo processo quanto costa il gusto di questi nuovi frutti? «È fondamentale per il successo di una nuova cultivar – spiega Piccoli – Il frutto deve piacere al consumatore sia come gusto che come forma». Proprio come la resistenza climatica e i fitopatogeni, il sapore può essere influenzato dalla latitudine. «Ad esempio, i consumatori dei mercati asiatici prediligono mele molto dolci, con colore uniforme e spesso completamente rosse. Nei Paesi del Nord Europa la preferenza va verso frutti con un’acidità più marcata e un equilibrio zuccheri/acidi più pronunciato. Anche la percezione di aromi e profumi può cambiare: ciò che in un mercato è considerato un gusto ideale, in un altro può risultare meno apprezzato». Ma spesso, nonostante si mangi per necessità e piacere, è proprio il gusto a essere sacrificato rispetto ad altri parametri come la shelf life. Dove la frutta è oro: viaggio nei supermercati più costosi del mondo I frutti del futuro Secondo Piccoli i frutti del futuro saranno varietà precoci e resistenti. Le piante da cui nasceranno permetteranno una maggiore flessibilità per i produttori. «Puntiamo a frutti che offrano sapore, colore e consistenza eccellenti, con una buona durata sugli scaffali». Per avvicinare i consumatori a questi nuovi frutti bisognerà conquistare la loro fiducia. Per farlo, si dovranno garantire la qualità e la costante presenza sui mercati. Sistemi di blockchain legati a QR code potrebbero garantire maggiore trasparenza e riconoscibilità. «Non basta lanciare una varietà innovativa: è fondamentale che mantenga ciò che promette in termini di gusto, salubrità, sostenibilità, tipicità e territorio», sottolinea Perniola. Un esempio viene anche dalle varietà seedless sviluppate dal CREA insieme al Consorzio NUVAUT. «Fin dall’inizio si è scelto di puntare sulla chiarezza comunicativa, spiegando che si tratta di nuove uve apirene italiane, selezionate in Puglia e legate al territorio. Una delle garanzie della qualità prodotta potrebbe derivare dall’inserimento di queste varietà nel disciplinare di produzione dell’IGP Uva di Puglia». Il rischio che il breeding riduca la biodiversità – anche gustativa – esiste, soprattutto per quanto riguarda le varietà coltivate in passato che oggi non rispondono più agli standard commerciali. Proprio per questo i contadini custodi, con il loro impegno, bilanciano la sfida dei frutti del futuro. Custodire il patrimonio genetico e culturale del frutteto del mondo è necessario tanto quanto innovarlo. [Missing Caption][Missing Credit]