Scrivere la natura: conversazione con Paolo Giordano

L’estratto che pubblichiamo di seguito è parte di una conversazione con Paolo Giordano, dal titolo Scrivere la natura, che si è svolta durante l’edizione 2025 di Alberi Festival - Costruire la città degli alberi. Il testo integrale è stato pubblicato in un ebook de Il dondolo, la casa editrice digitale, civica e gratuita del comune di Modena diretta da Beppe Cottafavi, ed è scaricabile gratuitamente dal sito ildondolo.it oppure dalla piattaforma Mlol. Martedì 14 ottobre, alle ore 17, Giordano tornerà a Modena, nel cortile del Leccio, per presentare l’ebook. Beppe Cottafavi: Dopo una settimana di incontri, mostre, laboratori, spettacoli, Alberi Festival chiude con un pomeriggio interamente dedicato al rapporto tra la scrittura, la letteratura e la natura. Abbiamo con noi Paolo Giordano. È l’autore della Solitudine dei numeri primi, con cui giovanissimo vinse il premio Strega. È anche un fisico e questo gli consente di raccogliere il testimone dei grandi scrittori scienziati del Novecento italiano. È editorialista del Corriere della Sera, va in giro nei luoghi più complicati dove accadono le vicende del mondo, quindi è sicuramente non solo un fisico, non solo un grande narratore ma anche un importante scrittore civile e politico, che ci ha accompagnato con pezzi assolutamente necessari e razionali durante la recente pandemia. Ha scritto un libro molto importante sui temi attraversati da Alberi Festival che si chiama Tasmania, Einaudi. Tasmania è un romanzo sul futuro e sulla crisi. Altre domande gliele farà tra poco Silvia Sitton, curatrice di Alberi Festival, con cui parlerà di come la sua scrittura sia influenzata dal suo essere fisico di formazione, ma anche di alberi, di natura, di politica e del nostro modo di stare in questo mondo. Silvia Sitton: Se fossimo a Belve e io fossi Francesca Fagnani ti chiederei subito: che albero ti senti? Paolo Giordano: Un salice piangente. Il senso del disegno per Chiacchio: «È come un’uscita d’emergenza» Tasmania è il tuo ultimo romanzo, è uscito nel 2022 e per l’edizione francese gli è stato attribuito il prix André Malraux quale «miglior fiction impegnata al servizio della condizione umana». È anche per questo che noi lo abbiamo voluto tra i libri da leggere ad Alberi Festival. Tasmania inizia con il protagonista io narrante che si chiama Paolo e che è un fisico e uno scrittore di successo di una quarantina d’anni e che sta attraversando una crisi personale sullo sfondo di questa crisi climatica in cui tutti siamo immersi e si fa mandare dal giornale per cui lavora alla conferenza delle Nazioni unite sul clima a Parigi. E mentre è lì, tra una conferenza e l’altra, si rende conto che l’ambiente è un argomento atrocemente noioso. Volevo chiederti se è vero che è così noioso raccontare l’ambiente e maneggiare la crisi climatica? Buon pomeriggio a tutti. Grazie Silvia. E grazie a te, Beppe. Scoprire questo luogo, il Villaggio Artigiano di Modena Ovest, scoprire Alberi Festival e la figura dell’architetto Cesare Leonardi, è valso il viaggio. Sono davvero contento di essere qui. La cura con cui avete scelto i libri, le opere, le voci che parlano di natura e, in particolare, di alberi. Non è un lavoro scontato, richiede un ascolto lento e una sensibilità non comune. Mi ha fatto riconsiderare qualcosa che io stesso, a volte, ho pensato: che la crisi climatica sia diventata un tema difficile da raccontare, persino noioso. Ma qui no. Qui l’ho sentita viva, urgente e al tempo stesso poetica. La natura, in fondo, è sempre stata oggetto poetico per eccellenza. Ma la crisi climatica – che è una ferita della natura – ha un problema specifico, che riguarda proprio il modo in cui la raccontiamo. Uno dei primi a intuirlo è stato Amitav Ghosh, in un libro fondamentale: La grande cecità, Neri Pozza. È uscito più di dieci anni fa, ma resta un faro. Ghosh immagina che gli archeologi del futuro, trovandosi immersi in un mondo già compromesso dal disastro climatico, si chiedano: com’è possibile che nessuno, in quegli anni, ne abbia parlato davvero? E chiama questo nostro silenzio, questa nostra inerzia narrativa, la grande cecità. Ma il punto che Ghosh solleva va più a fondo: il romanzo, come lo conosciamo, si fonda sull’idea di continuità. Raccontiamo storie partendo dal presupposto che il presente sia una prosecuzione coerente del passato, e che il futuro sarà – almeno in parte – riconoscibile. Eppure oggi questo patto si incrina. Gli assistenti digitali sono i «nuovi camaleonti» Viviamo un tempo in cui la gradualità è saltata, un tempo fatto di traumi improvvisi, accelerazioni brutali, sbalzi che cambiano improvvisamente lo scenario della nostra vita collettiva. Ghosh, raccontando la grande foresta di mangrovie del Bengala, mostra come i mutamenti geologici, un tempo ciclici, siano diventati irreversibili. Argini che spariscono in una notte, acque salmastre che invadono le coltivazioni, comunità costrette a scomparire. È un mondo che arretra, centimetro dopo centimetro, davanti a un futuro sempre più instabile. E allora la domanda che lui pone – e che anche io, da scrittore, non riesco più a evitare – è questa: come risponde la letteratura a tutto questo? Come si racconta un mondo che non assomiglia più a quello che conoscevamo, nemmeno ieri? Il mio romanzo Tasmania nasce proprio da qui, da questa crepa aperta. È stato un tentativo personale di rispondere a Ghosh, ma soprattutto di trovare un modo nuovo per raccontare ciò che stiamo vivendo. Non tanto con i dati o con l’allarme, ma con le voci interiori, con le relazioni che cambiano, con le forme che assumono la paura, la speranza. E credo che molti altri scrittori e scrittrici nel mondo stiano provando a fare lo stesso: dare una lingua a questo tempo. È una delle cose più interessanti che stia accadendo oggi nella narrativa: scrivere non “sulla” crisi climatica, ma “dentro” di essa, cioè partendo dal fatto che ne siamo immersi, tutti, nel profondo. Che la nostra immaginazione – anche quella più letteraria – ne è già attraversata. Le difficoltà pratiche della dieta ambientalista Mi chiedevo da dove nasce e come si è formata la tua coscienza ambientalista. Sono abbastanza propenso all’angoscia, per cui se c’è una fonte esterna di ansia la accolgo facilmente, credo semplicemente di essere stato molto suscettibile al dibattito scientifico su questi temi. È una forma di vulnerabilità emotiva, di permeabilità. Non è tanto una mancanza di lucidità, quanto una mancanza di epidermide, o meglio, di quello strato invisibile di grasso che separa il mondo dall’interiorità. Le preoccupazioni globali – e tra tutte, la crisi climatica – hanno trovato in me, da sempre, un terreno già predisposto ad accoglierle. Io tendo a credere alla scienza. E lo dico con la consapevolezza che, al fondo, anche la fiducia nella scienza ha qualcosa di religioso. Quando si parla di crisi ambientali, modelli climatici, sistemi complessi, si arriva a un punto in cui l’adesione ai dati si intreccia inevitabilmente con la fede nel metodo. O si crede nella scienza o non ci si crede: non c’è spazio per un’adesione parziale. Io ho sempre scelto di credere. Questo atteggiamento ha radici lontane, familiari. Nella mia infanzia, la tavola era il teatro di un certo tipo di educazione apocalittica. Mio padre portava ogni sera a cena una nuova fine del mondo. Alcune duravano giorni, altre settimane. Ricordo la crisi del petrolio, il buco nell’ozono, l’inquinamento acustico, le microtossine, gli ormoni femminili dispersi nelle acque. A casa nostra si cresceva con l’idea che il mondo fosse prossimo al collasso. Ma con una grazia paradossale, quasi domestica. In Tasmania a un certo punto ne parlo. Ama il prossimo tuo Quella formazione precoce ha lasciato una traccia: un senso permanente di deterioramento, difficile da scrollarsi di dosso. Anche oggi, che riesco a scherzarci sopra, che posso ironizzare sul mio catastrofismo appreso, non riesco davvero a liberarmi da quella sensazione di disfacimento imminente. La differenza è che allora si trattava di racconti futuri; oggi, basta guardarsi attorno per scorgere la conferma quotidiana di certe paure. Non c’è più bisogno di cercare fonti di angoscia. Sono le angosce che cercano noi. In questa condizione, l’unica forma di resistenza possibile, almeno per me, è stata quella culturale. Dare forma all’angoscia è l’unico modo per non esserne interamente divorati. E così, da anni, ho cominciato a studiare, leggere, inseguire la crisi climatica nelle sue tracce letterarie, scientifiche, filosofiche. Chiunque abbia studiato anche solo per passione le scienze naturali lo sa: all’inizio, l’apprendimento accresce la meraviglia. Ora qua parliamo di natura, di alberi, di quella bellissima selezione di libri che avete qui accanto, e più tu sai riconoscere gli alberi, più sei in grado di godere della loro bellezza. Quando non conosci nulla degli alberi, un bosco è solo un insieme verde. Ma nel momento in cui impari a nominare le specie, a distinguere le foglie, a interpretare una corteccia, il paesaggio diventa un testo. E la meraviglia cresce con la conoscenza. Conoscere, in un primo momento, amplifica la bellezza. Ma c’è un punto di rottura. Un momento in cui la conoscenza si fa coscienza. Quando inizi a intuire non solo come funziona la natura, ma quanto sia fragile. Non solo quanti alberi esistono, ma quali rischiano di non esserci più. Da quel momento in poi, lo stupore è contaminato. Ogni forma di bellezza è attraversata da un’ombra. Guardi un paesaggio e ne vedi già il degrado futuro. Lo contempli con amore e con lutto. Questo almeno è successo a me. Da bambino, la natura era il luogo dell’incanto. Poi, crescendo, ho cercato di comprenderla attraverso lo studio, la scienza, la fisica e la matematica. Ma a un certo punto, qualcosa si è incrinato. Quel mondo che mi nutriva ha cominciato a mostrarsi per ciò che è: un sistema instabile, continuamente minacciato, irreversibilmente alterato. E così, oggi, non riesco più a vedere un paesaggio senza percepirne la precarietà. Non riesco a gioire pienamente della sua bellezza, senza che quella gioia sia già intaccata dalla perdita. È una forma di lutto anticipato, forse. Ma è anche il risultato inevitabile. Più leggo, più capisco, più la crepa si allarga. [Missing Caption][Missing Credit]