«Se vieni a sapere come è fatto il caviale e continui a mangiarlo, sei un mostro». Non usa mezzi termini Alexis Gauthier, titolare dell'omonimo ristorante di lusso nel quartiere londinese di Soho. «Chiunque pensi che sia un alimento magnifico dovrebbe cominciare a guardare come viene realizzato». Nel caso volesse farlo, sarà al di fuori del suo ristorante. Al Gauthier Home viene servito solamente nella sua versione vegana, come ogni piatto inserito in menù. Se il caviale classico «proviene dall'inferno», lo chef francese da una stella Michelin ne ha immaginato uno «dal paradiso». È una combinazione di un brodo realizzato con piante di mare, in cui vengono aggiunti funghi e carbone, necessario per dare il colore nero. Per ricreare l'effetto delle palline, il liquido caldo viene mischiato a un olio molto freddo. Un barattolino da 50g di caviale classico o con aggiunta di vodka costa poco più di sessanta euro, spediti dal Regno Unito in una confezione regalo dentro cui si trova anche la ricetta dei blinis, da usare come base delle tartine.

Quello pensato da Gauthier non è l’unico caviale vegano. C’è anche quello prodotto dalla danese Caviart a base di alghe, condito con pepe di Cayenna, aneto, porro e curcuma, e il risultato è lo stesso a quello animale, sia nella consistenza sia nel sapore. Per scelta etica o per qualche tipo di consiglio alimentare, la rivoluzione vegana si è ormai imposta di diritto apportando un cambiamento radicale a tutti i livelli. Inizialmente si è cercata un’alternativa per i prodotti di base, poi via via ci si è allargati fino a quelli più lavorati. Come il foie gras che grazie a champagne, tartufi, sale marino e un po’ di nooch di formaggio può essere servito anche a chi non mangia carne.

Ogni piatto è reinventabile

Oltremanica, le due sorelle Rachel e Charlotte Stevens hanno fatto di necessità una virtù. Se una ha deciso di seguire di sua sponte la filosofia a base di vegetali, l’altra è stata costretta dalla sua intolleranza al lattosio. Il risultato di questa combinazione è La Fauxmagerie, aperta nei pressi della stazione di Camden Town a Londra. È la prima formaggeria plant-based del Regno Unito, volta a mantenere la tradizione nazionale ma con un approccio moderno per ridurre l’impatto sull’ambiente, «dove possibile». Ci sono i grandi classici stagionati, gli affumicati, gli spalmabili e quelli alle erbe, serviti su un tagliere e abbinati con una birra o un bicchiere di vino. Se si è in più di una persona si possono scegliere dei piatti condivisi, come il Camembert al rosmarino accompagnato da agave e due bicchieri di vino a base Glera, oppure la tipica fonduta. Il tutto a prezzi sostenibili, specie per una città come Londra.

Non è d’altronde il costo a determinare se un prodotto possa venire considerato di lusso (è vero piuttosto il contrario). A renderlo tale è la qualità dell’alimento e la tecnica con cui viene trattato. Motivo per cui si può finire a cena in un ristorante stellato vegano e pagare piatti composti da sole verdure allo stesso modo di filetto di Kobe.

Di ristoranti stellati vegani se ne trovano ovunque. A Tokyo c’è Daigo, mentre a New York se si vuole assaggiare la cucina giapponese shojin – tipica dei monaci buddisti – il posto giusto è Kajitsu. A Francoforte ha aperto Seven Swans (sette portate al costo di 190 euro), mentre nella francese Ares si trova Ona della chef Claire Vaillé. Alcuni si sono reinventati o cambiato pelle, come il parigino Arpège che a inizio secolo ha deciso di proporre solo piatti vegetali che possono arrivare anche a novanta euro, salvo poi reintrodurne alcuni che prevedono pollame e pesce. Dal californiano Atelier Crenn è invece impossibile trovare animali acquatici, visto che ha deciso di professare il pescetarianesimo.

Nicchia di tendenza

Categorico nel rimanere fedele alla sua scelta vegana è invece Daniel Humm, lo chef dell’Eleven Madison Park. Parliamo di uno dei ristoranti iconici di New York, votato come il migliore al mondo nel 2017 con le sue tre stelle Michelin. Come ricorda il Time, era famoso per la sua anatra arrosto frollata a secco con mele e lavanda, ma dal 2021 non è più in carta, così come è stata bandita qualsiasi ricetta che preveda carne. Per un motivo scontato visti i tempi che corrono, spiegato al giornale britannico dal proprietario: «Semplicemente, il nostro attuale sistema alimentare non è sostenibile».

Sempre più persone si stanno convincendo che mantenere intatto il livello del consumo di carne sia deleterio per la salute umana e per quella del pianeta, oltre in termini di produzione. Per cui si va alla ricerca di alternative, ma con un approccio ancora diffidente. I piatti a base interamente vegetale continuano a venire considerati di serie B rispetto a quelli di carne: un maiale, si pensa, sarà più complesso da cucinare rispetto a una verdura qualsiasi.

Ma soprattutto, per sostituire davvero una proteina animale con una vegetale, bisogna esserne capaci. E qui si inserisce l’esperimento portato avanti da Humm. Con il suo ristorante spera di poter un giorno essere ricordato come uno dei pionieri capaci di sdoganare il concetto di lusso nel cibo, dando il giusto riconoscimento a ogni piatto a prescindere dagli alimenti che lo compongono. «Se l’Eleven Madison Park riuscisse a cambiare la percezione di cosa sia un ingrediente di alta qualità e le persone fossero disposte a pagare di più per barbabietole, carote e cetrioli, ciò consentirebbe a molti ristoranti di diventare redditizi». L’obiettivo è chiaro: trasformare la nicchia in tendenza di massa.

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