Vestirsi sempre uguale non è la stessa cosa che vestirsi tutti uguali. Chissà se la disparità di genere nell’ammissibilità dell’uniforme, dell’uniformità, non apra una strada per la sorellanza maschile
- La mia assistente, una ricercatrice esperta d’avanguardie e lotta di classe, mi ha fatto notare che, pur cambiando colori stoffe e fantasie, mi vesto sempre uguale quando insegno. Ha definito il mio fidato outfit professorale un’uniforme. Mi domando a cosa mi sia uniformato.
- Mi domando anche perché “uniforme”, come parola, mi sia più simpatica di “conforme”. Avendo studiato dalle suore a cinque anni sono forse meno diffidente dal vestirsi tutti uguali, che è però ben diverso dal vestirsi sempre uguale, come ci insegna Paperino.
- Vado scrivendo da mesi che i maschi dovrebbero coltivare tra loro la sorellanza sviluppata, come pratica e teoria, dalla coscienza femminista delle donne che hanno fondato il pensiero di genere, ma ancora resisto mentalmente al fraterno sentirsi parte di un’unità ulteriore che certi usi maschili dell’uniforme hanno il potenziale di rivelare
L’industriosa, brillante dottoranda piemontese che questa primavera mi assiste nell’insegnamento del seminario sul gender e l’avanguardia offerto qui all’Università di Yale, la dottoressa Federica Parodi, mi ha fatto notare una cosa forse banale per chi legge con assiduità questa rubrica. Quando entro in classe, sono vestito sempre uguale. O meglio, cambio l’assortimento (le fantasie, le tinte, la famosa armocromia che tanto impensierisce in questi giorni chi si sente davvero di sinistra) ma gl



