Un serial killer sceglie le sue vittime desiderandole, e il desiderio nasce da quello che vediamo ogni giorno, da ciò che abbiamo sotto al naso. Così dice Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti. Ecco, dobbiamo immaginare il pubblico dei musei in maniera simile. Avete presente la Ginevra de’ Benci? È uno dei ritratti più affascinanti di Leonardo, anche se indubbiamente meno desiderato della Gioconda. Tuttavia le cose potrebbero cambiare, visto che il desiderio è al centro di un cambio epocale, culturale e politico, che sta investendo i musei di tutto il mondo. Ma andiamo per ordine.

Quando in un libro, in una rivista o in un documentario compare un dipinto quasi sempre troviamo informazioni sulla sua collocazione, ossia il nome del museo o dell’istituzione in cui è conservato. Quello che non tutti sanno è che quel museo o istituzione è stato pagato per concedere la riproduzione. Tutti gli editori, di libri e di giornali, pagano per usare le immagini, anche quelle d’arte, anche quelle su cui sono scaduti i diritti. Il pubblico non lo sa perché abituato al caos senza regola del web e crede che tutto sia lecito. E invece no. Le immagini si pagano.

Se si vuole usare la Gioconda bisogna versare un contributo al Louvre proporzionale al volume d’affari che si intende mettere in piedi. Ne consegue che il manuale di storia dell’arte ha un costo superiore a quello di scienze perché nel prezzo di copertina bisogna calcolare anche i diritti per le immagini. O almeno così era fino all’altro ieri.

(AP Photo/ Thibault Camus)

I diritti 

Sulle immagini esistono grossomodo tre tipi di balzelli: il diritto d’autore che viene riconosciuto a chi ha inventato l’opera (pittore, disegnatore, fotografo) e che, almeno in Italia, vale fino a settant’anni dalla morte, si tratta del riconoscimento della paternità intellettuale su una certa creazione. C’è poi il diritto museale che va alla galleria che possiede il quadro: in pratica Caravaggio è morto da più di settant’anni, dunque non gli spetta diritto d’autore, tuttavia la National Gallery può chiedere una cifra per concederne l’uso. Per ultimo c’è il diritto di riproduzione: il fotografo (vivente) che ha fatto la foto a Caravaggio chiede un pagamento perché quella foto l’ha fatta lui e non un altro. E qui iniziano i guai.

Se infatti fino a trent’anni fa il fotografo poteva rivendicare questo diritto sventolando il negativo della foto e dicendo: «Questa foto di Caravaggio l’ho fatta io». Come si fa, oggi, che le immagini sono file digitali, a distinguere lo stesso quadro di Caravaggio fotografato da sette fotografi diversi? Visto che, ipotizzando che siano tutti bravi, le sette foto saranno probabilmente indistinguibili.

Precedente legale

È quanto è accaduto negli Stati Uniti dove la riproduzione di foto di dipinti non è più soggetta a copyright, a seguito di una causa legale che risale a poco più di vent’anni fa ma di cui solo adesso si avvertono le reali conseguenze. Le cose andarono così: la Corel Corporation, una società canadese specializzata in software grafici, a metà anni Novanta comincia ad allegare ai suoi prodotti un cd-rom con dentro alcuni dipinti fuori diritto di artisti europei. Circa 120 di questi quadri facevano parte anche della collezione Bridgeman, a tutt’oggi uno dei più importanti archivi fotografici d’arte al mondo, così Bridgeman fa causa a Corel, ma (ahimé per Bridgeman) i giudici della corte newyorkese concludono che la foto di un dipinto non ha nessuna originalità intrinseca rispetto all’opera di partenza e l’originalità è l’unico requisito per rivendicare un copyright.

Bridgeman perde la causa e negli Stati Uniti, non esistendo un codice, basta un precedente processuale a fare legge. A quel punto molti musei hanno cominciato a tremare, visto che, specie per le grandi collezioni come il Louvre o i Vaticani, i diritti sulle foto compongono ogni anno una cifra non poco significativa.

Questa che potrebbe sembrare una storiella legale di interesse marginale, se non per gli addetti ai lavori, ha in realtà conseguenze significative per il futuro della nostra vita culturale.

Open access

A seguito di questo cambio di scenario alcuni musei americani, a cominciare dalla National Gallery di Washington e dal Metropolitan di New York, hanno infatti abbracciato una politica “open access”, cioè, le foto in alta risoluzione delle loro collezioni sono rese disponibili sul loro sito gratuitamente, anche per usi commerciali: chiunque può scaricarle e usarle con qualsiasi finalità, senza pagare e soprattutto senza chiedere permessi, autorizzazioni o liberatorie. Sul fronte umanistico la dichiarazione dei musei è chiara: «Queste sono opere libere da diritti, sono patrimonio di tutti e noi, pur possedendole materialmente, nella nostra illuminata magnanimità le concediamo gratuitamente». Questo è il futuro, ma è pure una resa: si prende atto che nell’epoca di internet e del digitale non è più possibile inseguire la diffusione di un’immagine e allora tanto vale lasciarla libera.

Oggi, negli Usa, un museo che non è “open access” è considerato un vecchiume reazionario non al passo coi tempi. Ma anche in Europa si sono sentite le prime pressioni. Nel novembre 2017, un gruppo di storici dell’arte inglesi ha firmato una petizione pubblicata sul The Times in cui si chiede di abolire i diritti di riproduzione su dipinti, stampe, disegni che siano di pubblico dominio, per non ostacolare la pubblicazione di saggistica illustrata, accademica o meno. E molti musei europei hanno accolto l’idea, tra cui il Rijksmuseum a Amsterdam, il Mauritshuis a L’Aia e il Belvedere a Vienna.

Desideri di massa

Tuttavia c’è anche un altro aspetto, ben più scaltro e lungimirante sul fronte economico. Se io concedo gratis la Ginevra De’ Benci molti saranno interessati a usarla, perché piuttosto che pagare per usare il Louvre per la Gioconda tanto vale usare questo dipinto per parlare di Leonardo. Pian piano libri, gadget e poster potrebbero popolarsi di Ginevre e fare un po’ d’ombra alla Gioconda e più un’immagine è riprodotta, più diventa nota. E più un dipinto è noto più attira turismo. Il codice da Vinci quanti visitatori ha portato al Louvre? E se sulla copertina del romanzo ci fosse stata Ginevra?

Come dicevamo, il desiderio nasce da quello che vediamo ogni giorno, vale per i serial killer e per i visitatori dei musei: se proponi di continuo certe immagini, alla fine il pubblico le bramerà più di altre. Si va al Louvre perché sono anni che ci viene messa sotto il naso la Gioconda (che fino a ottant’anni fa non era per niente un quadro famoso e che lo è diventato dopo lo scandalo di furto rocambolesco). Il pubblico di massa non è composto di storici dell’arte. Il pubblico di massa sceglie le proprie mete culturali perché qualcuno lo ha messo nelle condizioni di desiderarle. Proprio il Mauritshuis ha visto schizzare il numero di visitatori dopo il successo de La ragazza con l’orecchino di perla (il libro e il film). Quel dipinto, che era da sempre nelle loro collezioni, non era mai stato tanto ricercato prima di allora.

La politica “open access”, insomma, da una parte è un aggiornamento nella logica del diritto d’autore ma è pure un abile strumento di “marketing indiretto” che trasforma l’archivio del museo in una grande macchina promozionale. Vale la pena pensarci. Nel frattempo Italia, Francia, Inghilterra e Germania stanno a guardare, immobili, con una certa preoccupazione.

I politici invece di perdere tempo appresso a fantomatiche «Netflix della cultura» dovrebbero interessarsi di questi temi che sono la vera materia incandescente della contemporaneità. È qui che si gioca la politica culturale dei prossimi trent’anni. Sarebbe interessante se tutte le immagini fuori diritti dei musei italiani fossero rese open: chissà, forse saremmo al passo coi tempi e saremmo anche, per una volta, commercialmente scaltrissimi.

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