Salgo sulla terrazza di casa dei miei genitori alle due di notte per guardare lo spettacolo da vicino, per poterne saggiare il movimento superficiale e imprimerne i colori nella testa. Quante migliaia di altre volte nella Storia l’orrore ha preso i connotati del fuoco, è la prima cosa che mi chiedo. Quante volte l’orrore ha saturato la gola e gli occhi dei disgraziati che si trovavano nel posto peggiore e nel momento peggiore, facendoli lacrimare e tossire.

Mi tornano in mente i calchi degli antichi pompeiani, la loro intatta capacità di gridare: i contenitori di gesso dei corpi, le bocche aperte, la tensione dello sforzo congelata nella cenere. Plinio il Vecchio deve aver visto qualcosa di simile a ciò che mi si para davanti, prima di essere soffocato dalle esalazioni dello stesso vulcano a Stabiae, su una galea. Plinio voleva recare aiuto; soprattutto, voleva comprendere il fuoco. La sua era però l’insopprimibile curiosità del genio applicata alla Natura, non aveva a che fare con il male dei suoi simili.

Sterminatore devastato

Stavolta si tratta di un fuoco diverso e io non ho l’ambizione di comprenderlo. So che potrei riuscirci solo a un livello superficiale, seppure ne leggessi le motivazioni come in un libro aperto: mi sembrerebbero insufficienti, mi mancherebbe qualcosa per accettarne la povertà. La stupidità del denaro, la ferocia e la volgarità dell’appropriazione impunita. Non potrebbe esserci altro, in quel libro aperto.

E allora, sulla terrazza di mamma e papà, mi limito a contemplare il Vesuvio che brucia e stringo i pugni. Ne seguo con lo sguardo il fronte rosso, una linea di fuoco lunga tre chilometri. Il punto più alto in cui le fiamme divampano supera i mille metri.

Dal rogo esala un fumo grigiastro che dà l’illusione di una nuova eruzione, il cui timore non ha mai scoraggiato la moltiplicazione fungina di case abusive che ora illuminano il versante sud del monte, come le luci di una ribalta.

Osservo lo sterminator Vesevo ora devastato e mi sembra di vivere una versione provinciale dell’epilogo di Fight Club, col protagonista che assiste al crollo degli istituti di credito cittadini. Qui, però, del caos non arriva il rumore: sento il frinire delle cicale, il miagolio di un gatto, poco altro. L’incendio consuma il mondo in silenzio. Se fosse la fotografia di un tempo e di un luogo lontani, penserei che ha dei colori bellissimi.

È la notte tra l’8 e il 9 agosto e questo è solo il momento più eclatante di una serie di roghi che massacrano il vesuviano: il più vicino a me, quello di cui io e i miei familiari respiriamo da giorni le esalazioni tossiche, riguarda un capannone abbandonato pieno di vestiti e chissà che altro. La paura è cominciata da quel fumo lì, e ora il disastro del Vesuvio ha oscurato il resto.

No, non ho l’ambizione di capire. Non ho nemmeno il coraggio di morire, e anche per questo dalla mia terra sono fuggito come un coniglio. Ho sentito il bisogno di non assuefarmi alla tragedia, di non arrivare mai a considerare la brutalità delle zone in cui sono nato e cresciuto con la condiscendenza riservata a un’ontologia necessaria, irrinunciabile. Me ne sono andato per estenuazione ma anche per poter vedere in prospettiva e, dalla lunga distanza, riuscire ancora a scandalizzarmi. A soffrire bene, come diceva Massimo Troisi.

L’assemblea 

Mi scuoto, prendo il telefono, filmo la scena. Invio il video a Beppe Cottafavi, gli dico che sento il bisogno di scriverne. Che ironia. Il vulcano attivo più famoso del mondo va a fuoco, come subisse una silente e compiaciuta forma di vendetta.

Il giorno dopo affronto la mia mezzo demofobia e vado ad ascoltare un’assemblea cittadina d’emergenza, convocata nella piazza di Boscoreale. Porto con me l’inalatore per l’asma: mi è più necessario del solito, da quando l’aria ha cominciato a saturarsi di idrocarburi, diossine, ceneri che si depositano nelle grondaie, sulle auto, nei polmoni.

A turno, alcune tra il centinaio di persone radunatesi parlano di questioni annose per chi abita queste zone: la necessità di maggiore trasparenza riguardo alla gestione delle risorse da parte dell’Ente Parco Nazionale del Vesuvio, accuse di incapacità di presidiare e prevenire, le correlazioni risapute ma mai apertamente ammesse tra incendi, sversamenti, imprenditoria, pubblica amministrazione, camorra; i danni catastrofici per coltivazioni e falde acquifere; il tasso dei tumori in Campania, la regione italiana in cui più di tutte si muore di cancro.

Le parole degli intervenuti sono coperte dal frastuono dei Canadair che volano a bassa quota, facendo la spola dal mare di Torre Annunziata al monte, nel tentativo di domare le fiamme.

Dallo scorso giugno, più di mille roghi hanno incenerito almeno 2500 ettari di vegetazione, e ancora si parla di generici “piromani”. I movimenti ambientalisti denunciano da anni la dolosità degli incendi delle discariche abusive di cui è disseminato il Parco Nazionale, fosse in cui nottetempo eppure alla luce del sole camion sversano monnezza e liquami. Siamo diventati un’unica, vastissima terra dei fuochi in cui si bruciano i boschi per liberare spazi col fine di sversarvi altri rifiuti, da bruciare a loro volta per potersene disfare. Giri d’affari che valgono milioni di euro.

Quando torno qui, sono a due passi dal fiume Sarno, soprannominato “il canale dei veleni”. È il fiume più inquinato d’Europa e da quando ero bambino non è mai cambiato nulla. Ad agosto, il centro di Scafati è caratterizzato dal tanfo delle sue acque reflue, simile a nessun’altra puzza io abbia mai sentito. È un odore pungente, dolciastro, che sa di sostanze chimiche e putrefazione.

I colpevoli 

Un’emergenza nazionale di fuoco e melma si consuma in Campania da decenni, coperta da una cenere silenziosa che ammala la popolazione. Dal 79 d. C. sono cambiate le proporzioni del disastro e il fatto che, ora, il Vesuvio non è più carnefice ma è una delle vittime. I colpevoli stavolta esistono, e nel 95 per cento dei casi non vengono individuati.

Noi vi conosciamo, però. Io vi conosco.

Vi aggirate come cani, fasciati da indumenti chiassosi o completi grigi e sudati, troppo larghi o troppo stretti, dozzinali come le ambizioni che vi fanno alzare al mattino. La vostra faccia è sempre uguale a sé stessa, incatramata nell’arroganza, nell’assenza di pensiero razionale. È la faccia della violenza, del degrado, del menefreghismo, della sopraffazione. Io vi conosco, siete tutti identici, dal primo untuoso assessore incravattato all’ultimo parcheggiatore abusivo.

Siete la feccia criminale che infesta questi luoghi e che per me è universalmente colpevole, la stessa feccia che ha reso il fiume Sarno un osceno miasma, che seppellisce rifiuti tossici nelle campagne, che colonizza le spiagge, che estorce denaro a chi parcheggia l’auto, che piange miseria e non ha mai pagato un euro di tasse, che disprezza le persone oneste e disprezza la collettività, anche quando proclama di farne parte e, addirittura, di combattere per i suoi diritti.

Siete i piccoli arrivisti di provincia, le mani che si stringono e poi si lavano a vicenda, siete il “pigliamoci un caffè”, gli “stai senza pensieri”, i “dotto’!”, i “non dipende da me”. Siete quelli che legano ai gatti stracci imbevuti di benzina, danno loro fuoco e li osservano schizzare impazziti di dolore e paura nel sottobosco. È con tale crudeltà che siete capaci di bruciare ciò che vi sta intorno. Siete quelli che sversano liquami nel mare. Siete la causa diretta dei pesci morti, gonfi di veleno, restituiti alla battigia dalle acque di San Giovanni a Teduccio. Siete il tumore che ha ucciso molte persone a cui ho voluto bene.

I figli di questa terra vi conoscono, e vi maledicono. La terra che state bruciando e facendo marcire pezzo a pezzo, che fingete di rivendicare e invece vampirizzate, punta il dito su di voi. Le sue falde inquinate, i suoi frutti neri, le volute di fumo che guardate con occhi indifferenti e bovini, sussurrano i vostri nomi. Nemmeno di quelli, siete degni, nemmeno dell’aria mortifera che voi stessi, per le vostre azioni criminali, respirate.

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