Il Vesuvio brucia, ancora. E non è il fuoco di un disastro naturale imprevedibile: è la replica, puntuale e quasi meccanica, di un copione già visto e mai corretto. Dal pomeriggio dell’8 agosto 2025, lingue di fiamme hanno divorato boschi e coltivazioni tra Terzigno, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano e Boscotrecase, spingendosi fino al versante ovest verso Torre del Greco e Pompei. Tre fronti attivi, alimentati da vento e temperature elevate, hanno trasformato un’area protetta Unesco in un campo di battaglia.

Per domare l’incendio è stato necessario un dispiegamento straordinario: fino a 190 operatori a terra, rinforzi da più regioni, 6 Canadair e 4 elicotteri regionali in azione simultanea, quasi duemila lanci aerei tra il 5 e il 10 agosto per oltre 7,8 milioni di litri di acqua ed estinguente. Dal Lazio dieci squadre antincendio, dal Veneto tre squadre AIB, colonne mobili anche da Piemonte, Valle d’Aosta e Trentino. L’11 agosto il ministro Nello Musumeci ha firmato la mobilitazione nazionale, permettendo l’invio di uomini e mezzi dell’Esercito.

Una macchina debole

Ma il ricorso a una macchina emergenziale di questa scala per un rischio stagionale mette a nudo la debolezza strutturale della prevenzione. Secondo i dati regionali, i piani antincendio boschivo 2023–2025 prevedevano interventi di rimozione della vegetazione secca e creazione di piste tagliafuoco da completare entro maggio: ad agosto, molte aree erano ancora in attesa dei lavori. Non è andata così: Coldiretti ha denunciato che il 60 per cento dei terreni a rischio non era stato sottoposto a manutenzione preventiva.

Il Parco Nazionale del Vesuvio è sottoposto a vincolo ambientale e, per legge, la pulizia dei terreni privati e pubblici deve essere effettuata ogni primavera. Eppure i controlli risultano episodici. Il 2024 ha registrato appena 23 verbali per inadempienze, a fronte di centinaia di segnalazioni. La Regione Campania, in audizione alla Commissione Ambiente, ha ammesso «ritardi dovuti a gare di appalto e mancanza di personale specializzato». La Protezione civile regionale interviene soprattutto in fase di emergenza, senza un sistema di sorveglianza continua sulle zone a maggior rischio.

Dopo il rogo del 2017 – oltre 1.500 ettari distrutti – era stato annunciato un piano di videosorveglianza con 60 telecamere termiche e il potenziamento delle pattuglie forestali. Al 2025, risultano operative meno della metà delle telecamere previste e i turni di pattugliamento sono stati ridotti per carenza di organico.

La stessa Regione ha ammesso che l’aggiornamento del piano AIB 2023–2025 non ha ricevuto le risorse necessarie per coprire l’intero perimetro del Parco: su 88 chilometri di confine, le fasce parafuoco risultano interrotte o incomplete per circa un terzo della lunghezza. E nonostante le norme nazionali impongano la pulizia entro il 15 giugno, diversi comuni vesuviani hanno emesso ordinanze di obbligo solo a stagione già iniziata, vanificando l’effetto preventivo.

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Il risultato è scontato. Il rogo di quest’anno ha incenerito 560 ettari, di cui una parte nella Riserva Integrale Tirone-Alto Vesuvio. Coldiretti stima che serviranno almeno quindici anni per ricostituire i boschi. La perdita colpisce anche l’economia agricola: sono andate in fumo coltivazioni di albicocca Pellecchiella e Pomodorino del Piennolo DOP, con danni diretti e indiretti per agriturismi e filiere locali.

E così come in un sadico ciclo la catena delle responsabilità si ripete: enti locali che denunciano mancanza di risorse, Regione che rivendica piani «in corso di attuazione», governo centrale chiamato solo a emergenza avviata. Intanto, la manutenzione delle aree boschive procede a macchia di leopardo, senza un calendario vincolante e con affidamenti d’urgenza che alzano i costi senza garantire efficacia.

Fin dalle prime ore degli incendi amministratori e operatori hanno indicato l’origine dolosa come ipotesi principale. La presenza di più punti di innesco e la velocità della propagazione lo suggeriscono. La Procura di Nola ha aperto un fascicolo e i Carabinieri Forestali hanno creato una task force investigativa. La consigliera regionale Maria Muscarà ha avvertito che, senza un sistema di controlli costanti e provvedimenti giudiziari nei confronti dei responsabili, «il Vesuvio rivivrà lo stesso disastro del 2017».

L’incendio di quest’anno si inserisce in un contesto di clima più secco, con ondate di calore e stagioni di rischio sempre più lunghe. E il Vesuvio è uno dei punti più vulnerabili d’Italia per la densità abitativa e la continuità dell’interfaccia urbano-rurale.

Il presidente del Parco, Agostino Casillo, ha parlato di «sospiro di sollievo» per il miglioramento della situazione di oggi, ma il bilancio è già spaventoso: 560 ettari devastati, biodiversità compromessa, agricoltura colpita, comunità esposte a giorni di aria irrespirabile. Sono dati, non opinioni: confermano che, senza un cambio di paradigma, il Vesuvio continuerà a bruciare ogni estate. La lezione è scritta nella cenere: il fuoco non aspetta le procedure.

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